Il non superabile Maestro Federico Maria Sardelli, che onora gli Alterati con alcuni suoi testi profondi e seri (cfr la rubrica Lo sapevate che…), nelle sue multiformi attività di musicista e musicologo ha scritto anche un libro goliardico, L’affare Vivaldi (Sellerio), che sta riscuotendo (riscuotendo con la c) il meritato successo editoriale.
È appena il caso di ricordare a’ lettori che F.M. Sardelli è nientedimeno che il curatore del catalogo mondiale delle opere vivaldiane: mica cotica.
Ospitiamo oggi un’ispirata recensione dell’opera sardelliana scritta da Claudio Mellone. Un articolo breve ma chiaro ed evocativo, che giustamente il Maestro stesso definisce “la più bella che abbia ricevuto, ma soprattutto chi l’ha scritta ha capito tutto fino in fondo”.
di Claudio Mellone
La malinconia è uno stato d’animo che, come il colesterolo, può essere buono o cattivo a seconda che produca dentro di noi un sentimento di calore o di freddo: L’AFFARE VIVALDI è un libro profondamente malinconico nel senso buono del termine. Ti emoziona e ti riscalda fin dalle prime righe in cui si descrive un’assenza (o forse l’assenza): la stanza del compositore, disabitata e piena di tracce della sua vita, illuminata dal sole di un mattino di fine maggio. Una luce silenziosa che intonerà i colori del libro fino alla fine, colori tenui come acquarelli ma sorretti da una coerenza robusta e da un’indignazione ferma e rigorosa.
I manoscritti di Vivaldi, raccolti, venduti, dispersi, bistrattati, ritrovati, passano di volta in volta fra le grinfie di personaggi orribili o sotto i polpastrelli di uomini appassionati: le vicende di quelle carte preziose e dimenticate per secoli si dispiegano così in un romanzo per il quale l’autore ha ricomposto un piccolo giallo storico degno del miglior Luciano Canfora (mi viene in mente “Il papiro di Dongo”, ad esempio).
In questo libro c’è cuore, c’è intelligenza, c’è competenza; l’autore si fa da parte e mette a disposizione la sua conoscenza col nobile fine della verità storica e della riabilitazione dei giusti. Questo non vuol dire che la sua voce scompaia, ma è come messa al servizio di un qualcosa per il quale dobbiamo stare tutti zitti ad ascoltare. E comunque chi ha dimestichezza con il Sardelli-Werke-Verzeichnis sorriderà di gusto nel veder riapparire, nel corso del libro, alcuni dei topoi preferiti dal Maestro: un paio di note vedove (Trotti e Cioli), qualche supercazzola, espressioni tipiche (“una quarantottina di minuti”), una doverosa rimessa in riga di Padrepio che esula dalla storia ma che fa sempre bene rimarcare.
Riso e pianto, giustizia e ingiustizia, avidità e passione. Malinconia e bellezza come quel toccante numero del BEATUS VIR di Vivaldi che ritorna spesso nel corso del romanzo: penetra e si insinua fra le righe a ricordarci quanto siano fragili i fili che la Storia ci mette a disposizione per salvarci dalle vigliaccherie e dalle bruttezze di cui talvolta è capace l’essere umano.
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