di Shameless
C’è chi scrive di battaglie, di sangue e di ferro, e impiega tutta la vita nel farlo. Io oggi voglio scrivere di una stanza, di fuoco e di vino, terminando prima che finalmente l’estate arrivi portandosi via le ultime piogge.
Quando giunge il caldo estivo le serate cambiano, ci si siede fuori a frescheggiare, ognuno porta la sua seggiola e parla di argomenti lievi con lunghe pause.
La veglia è diversa, va compiuta in un ambiente chiuso, guardando il fuoco nel camino. La veglia ha bisogno di una camera non troppo grande né troppo rifinita secondo i canoni estetici della modernità campagnola.
Negli ultimi trent’anni e più del mio abitare ho visto e vissuto numerosi luoghi rimessi a nuovo dall’uomo, senza criterio e rispetto. Poderi ristrutturati o ricostruiti seguendo il gusto bizzarro di uno stile toscano che non è mai esistito. Pareti a pietra viva dove prima c’era un intonaco umile e scabro, chiaro ed essenziale, messo su da famiglie che non avevano tempo per pensarci su.
Il risultato sono spazi cavernicoli e assurdi. Finestroni aperti come ferite dentro muri una volta costruiti per proteggere dal freddo o dal caldo. L’intento irresistibile è quello di poter spaziare su di una vista spesso meravigliosa, ma a volte si rischia la blasfemia senza capire che a forza di voler guardare al di fuori, tutto quello che offre l’interno di una stanza rurale viene perso per sempre.
Il mio è un pensiero senza dubbio presuntuoso e soggettivo, chi decide di vivere in campagna ha diritto di farlo come gli pare e come i suoi mezzi economici gli permettono. Lungi da me il voler esaltare la vita scomoda e faticosa del bel tempo che fu. Dopo aver provato la privazione di riscaldamento centralizzato, acqua calda e luce elettrica, sono assai felice di abitare dove abito e cioè in una casa comoda, luminosa e pulita.
Apprezzo però il rispetto per l’anima di qualsiasi luogo in cui si decida di prendere dimora.
Tale rispetto può essere obbligato dalla scarsezza di denaro, ma è sempre e comunque conseguenza di una certa visione della propria interiorità rapportata al mondo esterno.
Il senso di ciò che sto scrivendo l’ho avvertito fortemente qualche sera fa, andando a cena e a veglia da una coppia di amici. Armande e Jean Pierre sono svizzeri, abitano a Neuchatel l’autunno e l’inverno e a Montalcino in un podere in comodato la primavera e l’estate. Vengono qui da più di trent’anni, hanno messo a posto qualche camera nel fabbricato principale e ripulito la macchia intorno alla casa. Armande è una pittrice sopraffina, passa le sue giornate dipingendo quadri il cui soggetto cambia ad ogni stagione. Adesso sta completando una serie dedicata al circo, l’anno scorso si trattava di paesaggi locali, prima ancora navi ed ancora prima interni di caffè cittadini. Il suo stile è colorato, dal tratto preciso e sicuro, disegna cavalli e figure umane trasmettendone il movimento o l’immobilità. Conosce la luce e la sa usare.
Quando Armande dipinge, Jean Pierre lavora a qualche piccolo progetto edilizio di mantenimento. Ha ottanta anni e ancora sale sul tetto per rabbecciare dove passa l’acqua, oppure sistema il piazzale ed il terrazzamento più in alto dove ci siamo accomodati per l’aperitivo.
Armande e Jean Pierre vengono qui da decenni e ancora non capiscono nulla di vino e di cibo, ne sono consapevole e affronto una serata con loro senza aspettarmi niente di buono su quel fronte.
Anche questa volta abbiamo cominciato bevendo maluccio: un Orvieto DOC da supermercato, contributore del mal di testa feroce apparso qualche ora dopo. Accompagnato da insalata di polpo, proveniente dallo stesso supermercato.
La vista del versante sud montalcinese nell’ora del tramonto ha compensato ampiamente la tristezza del povero invertebrato e la sua morte impietosa. Quella luce dolce e polverosa ed il piccolo borgo sulla sinistra erano gli stessi rappresentati da Armande nel quadro che fa la sua bella figura nel mio salotto. Ho rimirato per l’ennesima volta l’originale, poi ho svuotato il contenuto del bicchiere nell’erba e sono entrata in casa.
Più che una casa, una stanza. La camera per la veglia, questa resa ancora possibile perché la pioggia dei giorni passati aveva lasciato abbastanza freschezza umida da giustificare il fuoco del camino.
Più che un camino, una stanza nella stanza, così come era stato concepito anni et annorum fa l’unico spazio scaldato dell’abitazione.
Uno spazio modesto, niente di imperiale ed imperioso. Uno spazio sghembo con l’intonaco pennellato dal fumo di tanti inverni. Un pavimento pulito, ma sghembo anch’esso, con qualche mattonella sconnessa.
Appena di fronte, la tavola coperta da una tovaglia dalla trama bianca e fine, apparecchiata con una semplicità innalzata ad atmosfera di palazzo grazie alle candele. Tante candele per supplire la mancanza di luce elettrica. Infilzate su candelieri di peltro, sparsi un po’ dovunque. L’ambientazione così promiscua, fra essenza contadina e raffinatezza artistica, significava senza alcuna presunzione la scelta dei due residenti di non stravolgere il senso del luogo, mettendoci però una parte di se stessi nel renderlo loro.
Sono trascorse un paio d’ore, senza alcuno sforzo per la conversazione e con un certo impegno nel mandar giù delle tagliatelle collose servite nude con a parte il pesto del solito supermercato. Dopo il bianco abbiamo bevut… ehm.. cercato di bere un rosso maremmano avvolto in sentori brettati micidiali ma ignorati dagli ospiti innocenti. A seguire un vino rosso sfuso che ha brillato se non altro per la sua correttezza.
Infine dopo il formaggio, pesante come le pietre antiche del fabbricato, durante una pausa dedicata alla contemplazione delle ombre lunghe ritagliate sulle pareti dalle fiammelle, è successo l’incredibile.
Jean Pierre ha tirato fuori una bottiglia da un angolo polveroso, come un prestigiatore il coniglio dal cappello. Una bottiglia tozza e stondata, di vetro scuro, con scritto da una parte : C F RESERVA.
E dall’altra: COCKBURN’S
Il resto del testo sulla retro etichetta semisvanita recitava qualcosa in anglo-portoghese in cui l’informazione più importante era nelle parole “Tawny” e poi “Port”.
L’età ci è stata annunciata dal proprietario del reperto: 70 anni. *
Tutto quello che era stato prima in termini di mangiare e bere si è ricomposto nel gesto di assaporare un liquido dai toni profondamente ambrati, dai sentori di uva passa, erbe officinali, buccia d’arancia speziata, fico maturo.
Durante il passaggio dall’ umile bicchierino di vetro comune al mio palato già ben predisposto dopo la prima sniffata, il vino è esploso in un quadruplo carpiato all’indietro. Ad ogni capriola un nuovo impulso composto da zibibbo salato – se ciò esiste – , caramello, marzapane, noce moscata, noce vulgaris e radica di noce primi ottocento.
L’ultima scodata prima del tuffo finale l’ha data un’acidità setosa impeccabile. Come il rotolìo della palla da biliardo sul feltro prima di centrare la buca.
La Veglia si è così compiuta come doveva essere, le candele ormai quasi moccoli hanno continuato a vibrare sul nostro traballante arrivederci reciproco, prima della salita verso la macchina. Una lucciola ballerina ci ha accompagnato zigzagando e anche un pochino sghignazzando.
O forse era solo l’ultima fiamma nel camino rimasta impressa sulla mia pupilla.
*Tutto nel vino rendeva l’età credibile, a cominciare dalla bottiglia, di un genere non più visto in commercio. Un pezzo da collezione conservato dal mio amico per anni come investimento ed infine offerto a noi come suggello di un’amicizia profonda, di ben più valore che un ritorno economico.