di Raffaella Guidi Federzoni
La vita è un palcoscenico, n’est-ce pas? Prima o poi ognuno è chiamato ad esibirsi, seppure per pochi minuti, recitando qualcosa imparato a memoria, una poesia, un monologo, una frase sola o un intero atto.
Nella mia lontanissima infanzia ero afflitta da quella diffusa malattia cronica chiamata timidezza. Talmente ne ero vittima da riuscire a passare ore in silenzio sperando nell’invisibilità, in classe, alle festicciole, nelle riunioni familiari estese fino al quarto grado di parentela. Naturalmente, anche in occasione delle recite scolastiche le quali puntuali arrivavano come il raffreddore. Natali, Pasque, Feste della Mamma e del Papà. Per fortuna non ero quasi mai scelta, considerando la mia goffaggine e la mia voce stonata. Solo una volta fui designata per impersonare la Regina delle Fate, ma dopo un paio di prove fui destituita a favore di una bambina più carina e disinvolta.
Il velo invisibile di cui mi ammantavo fu rotto una volta per tutte dal mio perfido fratello che mi costrinse a diventare la Settima Orchessina nella recita di Pollicino, messa in scena dalla SUA scuola, la quale scuola era molto più figa, ricca e famosa della mia. Almeno così pensavo.
Superato il terrore paralizzante e messe le lacrime in tasca, mi divertii tantissimo.
Provai l’ebbrezza del palcoscenico e da allora qualcosa è rimasto. Di tutto il copione da me recitato ricordo solo questa frase “Vino bianco e vino rosso per tutti!”.
Destino anche questo.
Da tempo sono un’ex-timida sfrontata che parla di vino, in una, due, tre lingue.
Il mio palcoscenico può essere una sala con un centinaio di persone, una cena intima, un pranzo in terrazza. O, come stasera, un lungo tavolo apparecchiato all’interno di una sala che sembra una biblioteca, solo che sugli scaffali ai lati ci sono bottiglie invece di libri.
Questo tipo di spettacolo si chiama wine maker dinner e la sua ricetta è più o meno sempre la stessa: si prendono i vini di un’azienda vinicola, una persona che ne sappia qualcosa a riguardo, un ristorante o club privato con cucina e chef, alcuni clienti più o meno paganti – da otto a oltre cinquanta -. Si mescolano tutti gli ingredienti ponendo attenzione nella tipologia e nei tempi di servizio dei piatti in abbinamento, e dopo qualche ora la torta è cotta a puntino.
Ci sono alcune varianti, a seconda del pubblico pagante. Questa sera la variante è americana, ma non solo, è americana extra New York-Chicago-SanFrancisco-Los Angeles-Miami. Cioè è al di fuori del solito circuito in cui i partecipanti sono abituati a degustare e comprare vini italiani di qualità. Mi trovo infatti nella terza città di uno stato americano profondamente sudista, una città relativamente piccola che non avevo mai sentito nominare prima di arrivarci. Da queste parti la classe abbiente è abituata a bere Bourbon e Rye whisky, o vini californiani pesanti e concentrati. A giudicare però dalle prenotazioni per la cena, l’interesse per un vino che è tutto il contrario di quanto sopra deve essere particolarmente spinto.
Questo perché si tratta in primis di vino italiano, in secundis di vino toscano e in terzis perché gli ospiti si annoiano un po’ nella loro cittadina. Non sono molte le opportunità di distrazione serale a cui possono partecipare in coppia.
Sono infatti tutte coppie la cui età varia fra la mezza e la terza. Quasi tutte sono state in Italia e ovviamente in Toscana. Non hanno problemi economici e sono clienti del proprietario di un’enoteca importante, organizzatore della serata in un club esclusivo, le cui formalità ricordano ingenuamente quelle di un club inglese del secolo scorso.
Questo è il mio pubblico e per loro mi esibisco.
Prima dell’inizio stappo le bottiglie e le assaggio tutte, lo faccio sempre perché non posso rischiare di servire un vino difettoso a causa del tappo. Vanno bene, sono 36 bottiglie in totale, il mio palato è già asfaltato, ma non importa perché non berrò più durante la serata, farò solo finta, l’importante è che bevano gli altri.
Inizio con un saluto caloroso e vado avanti cercando di mantenere i tempi giusti, con pause lunghe per dar modo di mangiare e annuire, annuire e mangiare. Quando parlo scandisco le parole e le modulo alzando e abbassando i toni. Niente è più soporifero di un oratore monocorde. Gesticolo senza esagerare, sorrido e mi accaloro, sono italiana perbacco! Da me si aspettano un body language latino e io li accontento.
Soprattutto cerco di essere spiritosa, anche sparando qualche stupidaggine. L’importante è divertire tenendo l’audience sulla corda. Chissà cosa ricorderanno di questa serata, spero il nome della mia azienda, il nome dei vini e un’italiana buffa dal nome troppo lungo e difficile per essere pronunciato correttamente.
L’esibizione termina con un applauso che ricevo facendo la modesta, in realtà sono immodestamente soddisfatta, saluto le singole persone con qualche parola appropriata, poi mi schianto al bar cercando di rintuzzare il corteggiamento alcolico dell’organizzatore di cui sopra, unico intervenuto senza compagna. L’omo, irrobustito da numerosi bicchieri di sangiovese, insiste nel volermi convincere che votare Donald Trump è cosa buona e giusta. Annego in un Margarita le parole sarcastiche che non posso pronunciare, perché egli è il nostro migliore cliente da queste parti. Sorrido, batto il cinque a casaccio e comincio a sognare il letto casto che mi aspetta.
Domani altra città, altro pubblico, altro show.