di Armando Castagno
Il testo che segue è tratto dal volume “Borgogna – le vigne della Côte d’Or”, di Armando Castagno, in uscita nel mese di novembre 2017. La riproduzione è riservata.
La Romanée (ettari 0,8452), storico monopolio della famiglia dei Conti Liger-Belair, è il più piccolo Grand Cru di Borgogna; conseguentemente alla struttura legislativa autonoma dei Grands Crus, è anche la più piccola appellation contrôlée della Francia intera. Il termine “Romanée”, diffuso tra le vigne della Côte d’Or tanto da dare origine ad almeno cinque climats importanti (oltre ai tre di Vosne esistono lieux-dits detti “La Romanée” a Gevrey-Chambertin e a Chassagne-Montrachet), sollecita interpretazioni molteplici. Quella che convince maggiormente – assai più di una improbabile conduzione diretta da parte degli antichi Romani – è legata al passaggio di vecchie strade nei dintorni, la cui costruzione, nel medioevo, veniva genericamente ascritta ai Romani; era sufficiente che la via avesse un’età imprecisata. A supporto di questa teoria, la presenza di un cru chiamato Les Chaumes (i sentieri) e uno, di significato autoevidente, detto La Grande Rue.
Soccorriamo volentieri invece i colleghi francesi studiosi di toponomastica nel punto in cui intendono collegare alcune vigne di etimologia uguale o simile, come la Romanée di Gevrey-Chambertin (non quella di Chassagne, vai a capire perché) o Les Romagniens di Monthélie, alla radice *roman- nel senso di “corso d’acqua” (M.H. Landrieu-Lussigny-S. Pitiot, Climats et lieux-dits des grands vignobles de Bourgogne, Meurger, Parigi 2014, pag. 395), definendo “di origine ignota” la radice stessa. Questa in effetti esiste, ha origine ben nota, e ha dato vita a un toponimo un pelo più importante di quelli sopra citati. Risale al verbo latino ruo, “io scorro”, derivato dal greco rhèo, di identico significato (pànta rhèi!), attraverso l’etrusco *rumon, o *rumen, per l’appunto “fiume, corso d’acqua”. Da questa matrice deriva il nome di Roma, perché la parola *rumon passò ben presto a designare il “fiume” per anonomasia, il Tevere, e da qui a traslarsi al nome della città egemone sviluppatasi sulle sue rive.
In passato, esisteva a quanto pare a Vosne un’unica “Romanée”, che comprendeva anche l’attuale Romanée-Conti, e che ha fornito l’estensione al nome del comune: una scelta filologicamente impeccabile. Con questo appellativo – “Romanée” – il climat è fatto oggetto di una transazione di vendita datata 1240 e di un’altra di analoga natura del 1512. Non abbiamo idea di chi ne fossero i proprietari dalla metà del XVI secolo in avanti, per quasi trecento anni. La vicenda moderna della Romanée è però legata a doppio filo alla sua condizione di monopole. Lo era di sicuro nel 1827, già allora in capo alla famiglia Liger-Belair, una delle più rappresentative e importanti di Vosne-Romanée, e in particolare al generale Louis Liger-Belair (1772-1835), ufficiale della Rivoluzione e poi dell’Impero napoleonico, il cui nome è inciso – a dirne la reputazione post mortem – sull’Arco di Trionfo a Parigi. Nel catasto del 1760, invece, vi si distinguevano sei parcelle, di altrettanti proprietari differenti, e il nome che figura sulle mappe in corrispondenza del vigneto attuale è “Aux Echanges”.
Il raggruppamento delle sei particelle va datato agli anni tra il 1815 e il 1826, e ascritto quindi al generale Louis e a suo figlio Louis-Charles; il 1827 è anche l’anno della prima vendemmia conosciuta della Romanée dei Liger-Belair. Ma costoro, soli proprietari del vigneto pertanto da quasi due secoli, hanno a un dato punto rischiato di perderlo, e definitivamente. Fu nell’estate del 1933.
All’epoca, la famiglia possedeva, oltre a La Romanée, parcelle ambitissime in alcuni dei migliori climats della Côte de Nuits, compresi – c’è da tenersi forte – Richebourg, La Grande Rue, Aux Malconsorts, Les Saint-Georges, Clos de Vougeot, Aux Brûlées e persino La Tâche, nella sua piccola, intera parcella originaria. Alla morte del quarto Conte Liger-Belair, di nome Henri (1924), le proprietà, consistenti in 24 ettari di vigneti di enorme prestigio più lo stupendo Château de Vosne-Romanée, passarono per asse ereditario ai suoi dieci figli, molti dei quali ancora piccoli.
Quando venne a mancare anche la vedova di Henri (1931) due degli eredi erano minorenni. La legge francese dell’epoca sanciva che per attuare la divisione ereditaria occorresse attendere che tutti gli eredi fossero invece maggiorenni. Tre degli eredi più grandi di età si opposero, pretendendo la loro parte senza aspettare gli anni che la legge prevedeva. Per la verità, i fattori che forzarono la decisione di vendere i vigneti di famiglia furono probabilmente anche altri: la crisi economica del post-1929 spiegava anche sull’isola felice di Vosne-Romanée i suoi nefasti effetti, sotto forma di una drastica contrazione della domanda di vino dall’estero; e tra i parenti, a dirla tutta, i rapporti dovevano essere conflittuali. Ebbe così luogo la famosa, drammatica asta tenutasi nel municipio di Vosne il 31 agosto 1933, nella quale passarono all’incanto alcune delle più celebri vigne della Borgogna, e in cui il Domaine de la Romanée-Conti acquisì la proprietà del “La Tâche” dei Liger.
Questa mossa avrebbe poi determinato il monopolio attuale, dopo che al Domaine si incastrò un’autentica scala reale quando il CNAO allargò La Tâche ai possedimenti adiacenti di De Villaine e socio, accatastati, oggi come allora, come “Les Gaudichots”. I rampolli della famiglia assistettero dunque quel pomeriggio al doloroso spossessamento di proprietà quali La Tâche, il Malconsorts, il Brûlées, il Vaucrains di Nuits-St.-Georges. Ma uno dei dieci figli, il religioso Just Liger-Belair, prese da un certo punto in poi, senza che nessuno potesse aspettarselo tranne suo fratello Michel, a rilanciare su ogni offerta a destra e a manca, rintuzzando infine un’offerta che le cronache del tempo descrivono come incredibile, di René Engel. Il prete riuscì ad aggiudicarsi infine, salvandoli al patrimonio della sua famiglia, le tre vigne per cui aveva “aperto bocca” in asta: ossia gli attuali Premier Cru Les Chaumes e Aux Reignots, e, nella commozione generale, La Romanée. Al canonico Just, apparso come la divina provvidenza ai suoi familiari di ogni grado, è dedicata la bianca, semplice croce sormontante una lapide con il suo nome, che oggi permette di distinguere il limite superiore del “suo” vigneto.
Il giovane e dinamico Conte Michel, suo fratello, che lo aveva sostenuto nella memorabile licitazione, avrebbe dovuto occuparsi della conduzione pratica e quotidiana, stante l’impegno religioso cui tornò subito l’eroico Just; ma trovò la morte in guerra, nel 1941. Così, le vigne di famiglia, inclusa questa, finirono oggetto di contratti di affitto a conduttori esterni ai Liger-Belair, come la famiglia Michaudet, e anche la produzione, imbottigliamento e commercializzazione dei vini fu affidata a négociants della regione. Si è andati avanti così per decenni; solo dal 2006 la famiglia, in persona di Louis-Michel Liger-Belair, ha ripreso possesso pieno delle sue proprietà, e quindi fino a quella data è possibile trovare bottiglie de La Romanée con l’indicazione della proprietà in monopole, ma “prodotte e imbottigliate” da Bouchard Père et Fils, il celebre négociant di Beaune. Oggi, invece, La Romanée è tornata a sfoggiare nella bella e sobria etichetta il solo nome della famiglia per la quale, più che un vigneto di proprietà, è un simbolo.
Diamo un’occhiata al luogo, ora. La posizione è eccezionale: siamo esattamente sopra e in asse con la Romanée-Conti, con cui La Romanée ha in comune l’intero lato basale. La pendenza è più accentuata dell’illustre vigna sottostante: si sale dai 265 ai 273 metri nel breve volgere di una sessantina di metri di sviluppo verticale, e quindi siamo attorno all’11-12%. Dal punto di vista geologico, La Romanée è vigneto complicato nonostante le ridotte dimensioni. Un’argilla bruna, in percentuale inferiore al 40%, assai meno rispetto ad esempio alla Romanée-Conti o al Romanée-Saint-Vivant, copre di una quarantina di centimetri uno strato in cui alle argille si mescolano grossi ciottoli angolosi di colori diversi, dal rosa al giallo ocra. Più sotto ancora, ecco la dura piastra di calcare di epoca giurassica, di un tono tra l’avana e il grigiastro, con fossili di Ostrea Acuminata. In essa affondano piante – allevate a girapoggio, cioè perpendicolarmente alla pendenza – che hanno oggi una quarantina di anni di età media, ma una cui considerevole porzione (un quinto, più o meno) ne ha tra i 90 e i 100. Queste viti fruttano un’uva che regala senza mezzi termini uno dei più grandi e completi rossi del mondo.
La Romanée, è assodato, dà il meglio dopo qualche anno dalla vendemmia. Salvi i casi di annate “pronte presto” come ad esempio 2000, 2007, 2009 o 2012, è un vino che in gioventù offre di sé un’immagine più cupa del vero, orientata a declinare note quasi di prugna e fumo, e insistenti nuance di spezie tostate, su un fondo minerale di impressionante profondità. Poi, dopo qualche stagione, è come se il vino si scrollasse di dosso una zavorra. Ne ricordiamo le poche bottiglie assaggiate all’età giusta con ammirazione e stupore. Note bellissime di fiori come la peonia o la rosa canina, altre di mirtillo e gelso ne inseguono di freschissime, ma ardue da descrivere (pepe rosa? incenso? muschio?), e di appena chinate; si dipana infine in fondo al sorso, cadenzato da un tannino di finezza disarmante e di perfetto equilibrio acido, una salinità chiara, quasi iodata, che ha l’effetto di rendere tutto più lieve. “Zen-like sense of harmony”, ha scritto Allen Meadows di questo rosso. È una definizione impeccabile, perché oltretutto la dottrina Zen prescrive la cosciente partecipazione al mondo anziché l’alienazione da esso. Proprio quanto forse distingue La Romanée dagli altri Grands Crus per così dire spirituali della Côte de Nuits, come il Clos de Bèze, il Clos Saint-Denis, il Musigny, la Romanée-Saint-Vivant o la Romanée-Conti; appare anche a noi più tangibile e mondano, verrebbe quasi da dire più “umano”. Anche per questo merita gli si accordi un sentimento speciale.
Nota personale a margine, fuori libro
Ho testimoni – Antonio, Bruno, Fausto, Giampiero, Giancarlo, Luca, altri – di come ci sia accaduto, grazie alla generosità sconfinata di un fraterno amico, di provare La Romanée quando era in teoria troppo presto. L’assaggio dell’annata 2002 effettuato il 9 dicembre 2006 ci regalò un momento indimenticabile, perché il vino, lungi dal risultare immaturo, insolentito o istronzito dalla nostra avventata stappatura, si concesse quasi con lussuria. Era un folle caleidoscopio: ma nel mare di suggestioni risaltava questa nota di incenso da messa che per poco non ci indusse a intonare un salmo a cappella. A saperlo. Il salmo.
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