di Shameless
In quegli anni andava e tornava dal lavoro in autobus. Per dieci mesi doveva sopportare di stare in piedi per quasi un’ora, stipata contro altri corpi, ognuno con un odore diverso, ma sempre sgradevole. Ogni tanto avvertiva una mano troppo audace e allora agiva di piede o di gomito e la mano spariva. La mattina era importante riuscire a prendere il 67 prima delle otto, altrimenti sarebbe arrivata in ritardo e il capo avrebbe sbuffato guardandola con aria delusa. Il suo capo aveva una cotta platonica per lei e questo la faceva sentire colpevole se arrivava in ritardo, cioè spesso.
La sera non importava quale autobus prendere, c’era comunque più spazio e a volte riusciva a sedersi. Se il tempo era mite scendeva un paio di fermate prima di quella abituale e camminava pensando a qualche poesia ancora da scrivere. Poi arrivava a casa e dormiva mezz’ora prima di una cena insieme ai familiari, da compiersi con gesti e parole trattenute.
Il vino a tavola era rosso, mediamente alcolico, mediamente buono. Sempre toscano, sempre rosso e sempre medio. Nella sua mediocrità era sufficiente ad infiammare suo padre se qualche parola o qualche gesto non fossero abbastanza trattenuti.
Dopo cena dormiva più o meno un’ora davanti alla televisione, per non deludere i genitori e far loro sentire che condivideva le loro scelte di film, telegiornali e programmi a quiz.
Poi andava finalmente in camera sua e leggeva a lungo a letto.
La routine settimanale, noiosa e scontata durante tre stagioni, veniva stravolta in estate quando genitori partivano per il mare con le sorelle piccole e lei restava a Roma con il fratello. Dalla fine di giugno ai primi di settembre la casa si dilatava in uno spazio silenzioso e fresco da ritrovare la sera.
Seduta sull’autobus svuotato sentiva il calore salire dal basso ed avvolgersi intorno alle gambe vestite e calzate da ufficio, ma l’aspettativa di una serata diversa la rinfrescava. A volte cenava solo con il fratello, poi uscivano poco vestiti e su di una macchinetta volavano verso il centro per incontrare amici. Parcheggiavano e camminavano in gruppo nella magia color seppia e terracotta di una Roma che non voleva andare a dormire.
Altre volte erano gli amici a capitare a casa per una cena fatta di niente. Poi sbracati sui divani tenuti freschi dalla penombra delle tapparelle abbassate parlavano per ore di qualcosa che in seguito non avrebbero ricordato. I posacenere venivano svuotati quando non riuscivano a contenere un’altra cicca, i piatti lavati senza fretta.
E il vino, il vino com’era? Che vino beveva lei in quelle estati ruggenti non solo per la giovinezza e il candore di una vita appena acquietata da poche ore di sonno?
Estati in cui si faceva finta di ignorare i cambiamenti che avrebbero trascinato la città più bella del mondo in un burrone di mediocrità consumistica. Con ignoranza e spavalderia ci si teneva attaccati alle vetrine di negozi nobili che erano lì da generazioni, tenendo in mano coni con gelati consumati davanti alle stesse gelaterie frequentate dai genitori.
Le strade ed i vicoli del centro storico non erano ancora infestati da masse buzzurre vomitate dalla metropolitana che sarebbe arrivata in un paio di anni. Si poteva camminare senza scontrarsi, vagare abbracciati nel silenzio. Ci si poteva sentire fra i pochi privilegiati autorizzati a vivere lì.
Il vino d’estate era bianco, bevuto senza presunzione, leggero e freddo. Vino comprato sfuso in qualche vineria non ancora trasformata in enoteca.
Oppure vino venuto su da una cantina sociale pugliese, comprato dal padre in casse da dodici bottiglie, qualcuna lasciata per i figli che rimanevano a lavorare in città. Bottiglie stappate per cena e bevute in ciabatte prima che la sera iniziasse.
Quella cucina priva di orario, avvolta dal profumo di spaghetti al pomodoro.
Una sera tornò nell’ora dorata che precede il tramonto, arrivando dall’alto della salita vide dei ragazzi che si tiravano una pallina per strada, uno era bello e ricciuto. Un corpo snello ed abbronzato, due braccia lunghe che lanciavano lontano, una voce allegra poco precisa nell’italiano.
Un ragazzo nuovo nel giro, gentile e curioso, munito di una cinquecento beige. Un ragazzo che continuò a piacerle per tutta la sera e la notte. Peccato che fosse raffreddato, talmente raffreddato da essere intoccabile.
Alle quattro di notte crollò su di un materasso privo di lenzuola, senza spogliarsi. Non era successo niente e niente sarebbe successo. Non lo avrebbe rivisto più e dopo quarantotto ora lo aveva già dimenticato. Altre notti estive sarebbero arrivate.
Poi tutto finì.
Arrivò un tempo diverso, come succede nella vita e nelle storie. Un tempo responsabile.
Ai suoi figli raccontava poco di quegli anni, capiva che si sentissero imbarazzati nell’ascoltare di quando ancora non c’erano. Quello spazio temporale chiamato Prima di Allora, in cui Allora voleva dire la loro nascita, la venuta al mondo in un altro luogo da quello vissuto dalla mamma bambina, ragazzina, giovane donna.
Raccontare di un tempo d’estate accaduto prima delle loro estati.
Cosicché preferisco scriverne qui, con accanto un bicchiere che lentamente si sta scolmando, un bicchiere di vino bianco leggero e freddo, senza pretese.
Vino bianco d’estate.
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