Millennials

di Raffaella Guidi Federzoni

Io non ho paura della Cina, ma nemmeno una grande affinità con quello che è il luogo più popolato al mondo. Un calderone colmo di esseri umani che come rivoli debordanti rotolano e scorrono ovunque nel mondo, e dove non arrivano di persona, arrivano i loro soldi.
Io non ho paura di questo, sono troppo vecchia, toccherà ai miei figli e ai figli dei miei figli confrontarcisi.

Anche i miei figli non ne avranno paura, perché i miei figli sono Millennials proprio come i milioni di figli unici nati in una Cina dalla cultura stravolta e cancellataa favore di un progresso di massa. Quel progresso che è arrivato da tempo, prima tracimando i singoli, reprimendo l’autonomia di pensiero, spingendo le capacità umane lavorative oltre ad ogni limite, ed infine elargendo consumismo a piene mani.

Noi bravi occidentali illuminati, bisnipoti di una borghesia progressista e colta, spolverati di studi classici, criticoni di democrazie e presidenti in carica solo per pochi anni, come possiamo permetterci di puntare il ditino verso i bisnipoti di quelle file inumane che per secoli hanno vissuto spaccandosi la schiena e morendo di fame senza saper né leggere, né scrivere, figliando solo per far morire di fame anche la nuova generazione? Tutto in nome di un’entità lontanissima e rinchiusa in un palazzo di potere, dentro un labirinto controllato da pochi avidi squali, fieri delle loro unghie lunghe, simbolo di nobiltà perché mai spezzate dal lavoro fisico.

Puntiamo il dito e ci spaventiamo per quello che è la Cina oggi, anche solo dal punto di vista vinoso. Un paese che non corre, bensì galoppa, nel piantare vigneti estesissimi, assemblare botti costose ed assumere i migliori consulenti.
Un paese che spende e spande con investimenti per noi occidentali impensabili e che compra tanto e ovunque, anche a casa nostra.

In realtà, il fatto che ci sia da pochi anni così tanto interesse nel produrre vino entro i confini nazionali, con capitali e personale cinese nella gestione, non dovrebbe spaventarci, ma rassicurarci perché tutto questo gran lavoro produttivo ed anche mediatico sta ottenendo dei risultati interessanti come attenzione e consumo da parte della categoria più importante per noi piccoli italiani produttori di grandi vini di qualità, cioè i Millennials.

Questa bella gioventù, il cui anno di nascita spazia più o meno fra i primi anni ottanta e l’inizio del terzo millennio, non è figlia di contadini od operai, ma di quella piccola borghesia urbana nata e cresciuta in città già esistenti o spuntate quasi dal nulla. I ragazzi hanno beneficiato di un’istruzione prima impensabile e, seppure nei limiti di una censura importante, hanno imparato a conoscere l’esistenza di un mondo occidentale e dei suoi prodotti.

Persone che parlano abbastanza bene l’inglese, viaggiano e vedono, poi tornano a casa e lavorano sodo, non più come ciuchi ciechi, piuttosto come cavallini di razza scalpitanti dal desiderio di raggiungere il traguardo il più velocemente possibile. Il raggiungimento dello stesso qualche volta può sembrare privo di ogni etica indoeuropea –cioè banditismo puro e non velato da regole di cortesia e correttezza- però anche in questo qualcosa sta cambiando in meglio. A differenza di dodici, dieci e persino cinque anni fa, i miei interlocutori hanno assorbito le fondamenta di una trattativa commerciale onesta, pur continuando a patteggiare fino allo stremo delle forze.

 La sensazione più importante che ho avvertito durante il mio recente viaggio, il sesto, che ha toccato quattro città diverse, è stata di trovare finalmente persone affini. Per la prima volta avevo di fronte uomini e donne, tante donne, con le quali condividevo passione e conoscenza per l’oggetto “vino”. Tutti molto più giovani di me, tutti Millennials. Un movimento generazionale importante che sta facendo pulizia e rovesciando quello che sembrava un sistema immutabile nella commercializzazione, con in testa i GrandCru bordolesi ed i produttori iconici borgognoni, poi un generico Bordeaux, poi la Francia, poi l’Australia e solo molto sotto l’Italia.

Io non mi baso tanto su grafici e statistiche, più che altro su impressioni e risultati. Certo tutto questo è molto piccolo rispetto ai volumi della produzione domestica e di quella importata, ma noi siamo piccoli. Non è quindi sulle dimensioni che possiamo contare, bensì sulla qualità e diversità.
I Millennials si distinguono proprio in questo rispetto alla generazione cinese precedente, cercano la diversità.

Il giovanotto che mi ha accompagnato e che da un paio d’anni segue la nostra importazione è così coraggioso da avere nel suo catalogo, esclusivamente di vini italiani, anche produttori della Val d’Aosta e del Molise. Fa bene, sono vini che si distinguono e sanno essere apprezzati da chi non ha pregiudizi e possiede un palato abbastanza fresco, non impostato solo su di un gusto imperante fino a pochi anni fa.

Un’ulteriore conferma, oltre al pienone fatto tutte le sere durante le cene di presentazione, con ospiti scelti accuratamente fra distributori, clienti privati importanti, giornalisti di settore, me l’ha data l’unico italiano presente proprio l’ultima sera. Forse l’unico borderline anagraficamente collocato fra Millennials e Generazione X, certamente non un Baby Boomer come me.
Il signore rappresenta un importante ente privato italiano, responsabile di eventi promozionali relativi al prodotto “Italia”.

La  gestione di tale ente è stata recentemente rinnovata e ripulita da alcune contaminazioni non proprio candide, così mi è stato raccontato durante la cena. Qualcuno è stato allontanato ed adesso sembra che il carrozzone lento ed inefficace si sia trasformato in una locomotiva che viaggia velocemente su binari meno sconnessi. Certamente è il momento giusto per darsi da fare in modo più mirato, perché nel campo sterminato rappresentato dalla Cina, ci si può ritagliare un giardinetto fiorente, basta approfittare del terreno giusto rappresentato appunto da questa generazione nuova.

La prova provata di tutto quanto sopra scritto me l’ha fornita il giovane concierge dell’albergone di Shangai, la mia ultima tappa. Mentre si adoprava per trovarmi un paio di indirizzi, saputo che ero italiana non solo mi ha parlato subito di vino, saltando gli argomenti usuali come Roma-Firenze-Venezia-Bocelli, ma mi ha platealmente dichiarato, per la gioia dei turisti pazientemente in coda: “My favourite wine is Barolo!” e pazienza che io vendo Brunello, mi ha fatto immensamente piacere. Gli ho comunque dato il mio biglietto da visita, non si sa mai, oggi concierge, domani Presidente/Amministratore Delegato/Maggiore Azionista di una qualsiasi mega azienda cinese.

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