di Shameless
Prima di degustare lavatevi i piedi. Anche le ascelle. Così se annusate qualcosa che possa ricordare certi odori acri o fungini non sarà merito vostro.
Leggete bene, ho scritto “merito” non “colpa”. Questo perché l’eno-tendenza attuale considera alcune sfumature nasali un pregio.
Un tempo si consigliava di evitare profumi o dopobarba troppo invasivi, smalto per le unghie, rossetto o gel per la chioma. Questo perché si rischiava di avvertire sentori golosi, cipriati o floreali che appartenevano al soggetto assaggiante e non all’oggetto degustato.
Adesso diventa tutto più complicato.
Adesso non è buono quel che è buono, ma è buono quel che piace. Spesso quel che piace non a te, ma a lui, il New Describer/New Taster/New Wine Expert.
A volte, raramente per fortuna, anche al New Wine Maker.
Wine Maker, non Wine Grower.
Scrivo i termini in inglese sia per necessità di esprimere un messaggio semplice ed universale, sia perché quello che è banale in italiano nel linguaggio angloide diventa molto fico.
In realtà non avrei nemmeno voluto scrivere un testo così, mi ci sono ficcata dentro inconsapevolmente, spinta da un moto improvviso. Ultimamente sto leggendo troppo riguardo a ciò che nel campicello del vino contemporaneo viene considerato non solo accettabile, ma encomiabile. Cosicché invece di concentrarmi sulla dura realtà dei mercati trasudanti offerte enoiche dai prezzi spiazzanti, sull’arroganza ed ignoranza degli acquirenti potenziali, mi frantumo il buon umore e il buonsenso contro una parete di sentenze e giudizi categorici.
Sto scrivendo su di una tavola da surf immaginaria, cercando di evitare le onde insidiose del dejà scritto e dejà detto e dejà commentato trilioni di volte. Non posso esimermi perché ho a cuore la buona fede della maggioranza dei consumatori e soprattutto rispetto me stessa, la mia esperienza e la mia capacità professionale.
Per cui quando leggo per l’ennesima volta che un vino dal naso graniticamente sgradevole, con odori che rimangono lì e non si schiodano, con una bocca impregnata di smalto avariato, è un vino vero e sincero mentre il suo vicino – puro, cristallino, slanciato senza squilibri – è al contrario un vino artefatto e bugiardo, m’incazzo e mi viene voglia di provocare una strage come un elefante in una cristalleria.
Per fortuna che sono ormai una vecchia babbiona e come altri vecchi babbioni miei coetanei mi sono formata il palato prima dell’avvento dei favolosi vini di fine XX secolo – quelle bombe fruttate, legnose e concentrate che ancora piacciono ai Nuovi Ricchi Asiatici -. Per fortuna perché questo mi pone sullo scaffale polveroso e lontano dalle mode, soprattutto quella attuale che ha fatto oscillare il pendolo nella direzione opposta, verso vini sadicamente frustranti, ossuti e scarnificati fino all’anoressia.
Tutti possono bere tutto quello che a loro pare, siamo in una eno-democrazia che è imperfetta, ma sempre meglio di un eno-totalitarismo che non fa prigionieri.
Ciò che però mi fa adombrare ai limiti dell’orticaria fulminante è la parte ideologica del fare vino, quella forma di difesa occulta che si trasforma in un attacco barricadiero “Continuate pure a fare quel che fate, ma non chiamatelo vino, perché non è vino, è un’altra roba.” Sottintendendo che l’Altro produce il Falso, il Dannoso ed il Deviante.
Eh!? Ma de che?!
Ho assaggiato, continuo ad assaggiare ed assaggerò finché potrò le produzioni autentiche di tanti piccoli produttori che nemmeno si sognano di sbandierare proclami categorici. Si limitano a lavorare ogni giorno con attenzione e criterio, in luoghi vocati alla viticoltura, nuovi al mondo oppure già conosciuti. La stragrande maggioranza dei loro vini ha carattere, pulizia, personalità ed equilibrio.
Ho assaggiato, continuo ad assaggiare ed assaggerò finché potrò le produzioni autentiche di produttori medi o anche grandi al punto da non poter essere considerate artigianali, ma i cui vini non presentano alcun aspetto omologante e banale, bensì sono portatori di stile e sfumature diverse ad ogni vendemmia.
Ho assaggiato, continuo ad assaggiare ma mi sa che presto smetterò di assaggiare produzioni di “altra roba” cioè vini così spogliati di tutto da risultare scheletri irriconoscibili, oppure così poco seguiti e quindi per niente interpretati nelle singole annate da presentarsi sgradevoli, violenti e molto presuntuosi.
Come direbbe un mio amico e collega alterato “Ma poi so’ ragazzi!”. Giusto, lasciamo ai ragazzi la possibilità di ruzzare* quanto gli pare, io che ragazza non sono più da tempo mi permetto solo di cercare di rimettere in carreggiata un linguaggio del vino così sbandato.
*Termine in voga in terra tosca dal significato di: scherzare, giocare rincorrendosi.