di Burton Anderson
Il fiasco, sia nel significato tradizionale di contenitore di vino che nel senso traslato di flop, ha giocato un ruolo frequente nelle mie esperienze quasi dall’inizio.
Il fiasco che si riferisce alla bottiglia bulbosa con la base di paglia intrecciata è entrato nella mia vita nella tarda adolescenza in Minnesota, quando ho iniziato la mia carriera di bevitore con un rosso economico e allegro etichettato come Chianti. Da allora tale contenitore ha sempre avuto un posto nel mio cuore, nonostante il divieto virtuale del fiasco dall’uso commerciale del settore vinicolo toscano, un tabù che ha quasi cancellato dalla memoria una venerabile tradizione artigianale.
Per quanto riguarda il fiasco che si riferisce al fallimento, quella connotazione ha avuto un ruolo così importante nelle mie avventure che a un certo punto ho deciso di identificare il lavoro della mia vita come Fiasco Enterprises. Sogghignate se volete, ma mi capita di prendere Fiasco Enterprises piuttosto seriamente, almeno quando sono sobrio.
Quando mi sono stabilito a Roma negli anni ’60 mi sono concentrato soprattutto sul Chianti, la quintessenza del vino italiano nella sua bottiglia iconica. Ho guidato la mia Fiat 500 lungo la Cassia fino a Siena e Firenze per esplorare la rustica campagna collinare nel mezzo, visitando osterie dietro a negozi di alimentari che servivano la cucina toscana con il Chianti locale.
In un libro pubblicato nel 1990 ho parlato del Chianti dell’epoca come prodotto con il curioso metodo del governo dell’uso toscano, consistente nell’aggiungere al vino appena fermentato uve appassite o i loro mosti per indurre una seconda fermentazione che rendesse il vino rotondo con un pizzico di vivacità. Come ho scritto:
“Quando il governo funzionava, sia per intento o per caso, il Chianti esprimeva pura bontà e una spontanea joie de vivre che nemmeno il più astuto dei tecnici di cantina di oggi sarebbe in grado materialmente o spiritualmente di raggiungere. Per accentuare l’aspetto sentimentale ho adorato il fiasco, quella bottiglia da due litri di vetro verde scuro soffiato dagli artigiani e avvolto di paglia dalle donne di campagna e riempito di liquido rosso rubino: il più distintivo dei contenitori di vino, l’incarnazione stessa dell’eleganza rustica. Non solo, la confezione si adattava perfettamente al prodotto”.
I primi fiaschi erano evidentemente realizzati da soffiatori di vetro delle Val d’Arno e Val d’Elsa, dove la palude forniva paglia o vimini con rami abbastanza robusti da poter essere tessuti intorno alla bottiglia e durare per anni. Il fiasco era un contenitore comune in Toscana già nel XIV secolo, come testimoniano numerosi documenti e opere d’arte che raffigurano bottiglie in varie forme rotonde ricoperte di paglia.
Il tradizionale fiasco fiorentino era spesso abbastanza grande, contenente almeno due litri e apprezzato dai prodigiosi bevitori di vino. I recipienti più grandi, con capacità anche doppia, erano detti damigiane e venivano legati con vimini o paglia pesante dapertutto. Prima dell’avvento dei tappi di sughero, il modo consueto di sigillare il vino in fiaschi e damigiane consisteva nel colmarli con un po’ di olio d’oliva, che serviva come chiusura più o meno ermetica.
I toscani non gettavano mai i fiaschi ma li conservavano perché erano decorativi e utili come contenitori del vino, di olio d’oliva e altri liquidi. Vi si cuocevano persino i fagioli, anche se raramente oggigiorno; la paglia veniva separata dal fiasco, il quale a sua volta veniva riempito con fagioli secchi, liquido ed erbe aromatiche, infine annidato in mezzo a carboni ardenti per realizzare i fagioli al fiasco.
Fu solo nel Settecento che i vini rossi del Chianti in fiaschi ottennero molta più attenzione oltre Firenze, anche se i vini conosciuti come Vermiglio e Florence Red erano almeno altrettanto popolari sul mercato d’esportazione. Il modo ideale per spedire il vino era in piccole botti di legno, ma man mano che il commercio cresceva e gli stranieri insistevano sui pittoreschi fiaschi, gli imbottigliatori spedivano questi con l’olio d’oliva in cima e un cappuccio di vimini o di carta che poteva impataccarsi quando il treno si inclinava o la barca oscillava. I toscani avevano geniali sifoni di vetro per rimuovere l’olio ma i bevitori esteri, senza la stessa abilità di estrazione, spesso bevevano il vino mescolato all’olio.
La svolta internazionale del Chianti arrivò nel 1860 quando Laborel Melini inventò il fiasco strapeso di vetro temperato forte in grado di resistere alla pressione della sigillatura del sughero. Melini a Pontassieve vicino a Firenze divenne un importante spedizioniere del Chianti, presto affiancato dalla vicina casa di Ruffino. Il loro successo attirò imbottigliatori e négociants di tutta la Toscana che fiutarono l’affare.
Nel 1872, il barone Bettino Ricasoli, che era stato il secondo primo ministro italiano, compose una formula di produzione che per oltre un secolo ha rappresentato un modello liberamente interpretato per il Chianti. Il Ricasoli ha prodotto il Chianti principalmente dal Sangiovese, esaltandone il bouquet e il “vigore delle sensazioni”. Ha consigliato l’uso di uve rosse di Canaiolo per completare il sapore del Chianti giovane, osservando che la Malvasia bianca nel blend “aumenta il sapore e lo rende più leggero e più adatto all’uso quotidiano a tavola”.
Nei decenni che seguirono, la formula fu diluita con torrenti di bianco del prolifico Trebbiano Toscano e il Chianti in fiasco divenne il vino più popolare al mondo. Con l’aumento delle esportazioni, i vigneti e le cantine fiorirono oltre la zona centrale del Chianti Classico per estendersi in tutta la Toscana tra la costa tirrenica e l’Appennino.
Un nucleo di case vinicole affermate, con sede principalmente nella zona tra il Chianti Classico e le colline intorno a Firenze, ha continuato a produrre vini autentici e di qualità ammirevole. Ma i mercati in Italia e all’estero sono stati travolti da “Chianti” di dubbia provenienza, con etichette improvvisate e vendute a prezzi in linea con la qualità e l’affidabilità dei vini.
Nel corso del tempo i fiaschi si sono evoluti nelle dimensioni, nella forma, nei disegni e nelle tecniche di tessitura della paglia intorno alla base, tocchi artistici che a volte hanno dato luogo a capolavori di artigianato rustico. Con la diffusione delle spedizioni, le dimensioni dei fiaschi sono diminuite a 1,5 litri, 1 litro o ancora meno. Al contempo sono stati trovati modi per produrre meccanicamente le basi di paglia.
Per gli stranieri il fiasco è stato un simbolo dell’Italia e dei vini spensierati, servendo da portacandele in cima alle tovaglie a scacchi dei ristoranti con le immagini del Colosseo, del Vesuvio fumante o della torre pendente di Pisa sulle pareti. Tra i veri bevitori di vino, tuttavia, il fiasco rappresentava una specie di burla e tale macchia è rimasta impressa al Chianti anche quando i fiaschi sono definitivamente tramontati.
Decenni di eccesso avevano talmente danneggiato la reputazione del nome che a metà degli anni ’70 i produttori toscani concordarono sul fatto che il fiasco, l’eterna icona del Chianti, doveva sparire. Oggi purtroppo solo pochissimi Chianti di qualità sono commercializzati in veri fiaschi, mentre repliche scadenti circolano con basi di paglia sintetica o plastica.
Fiasco sembra derivare dal tardo latino flasco, anche se il modo in cui tale termine abbia assunto la connotazione dispregiativa di “fare fiasco” è aperto alle più varie congetture. Alcuni sostengono che si riferisse ai tentativi falliti dei soffiatori di vetro di ottenere la forma bulbosa richiesta. Altri che ebbe origine teatrale nel Seicento, quando l’attore comico Domenico Biancolelli selezionò gli oggetti e li descrisse fantasiosamente ma la sua rappresentazione del fiasco deluse così tanto che fu fischiato fuori dal palcoscenico. Il fiasco ebbe una correlazione comica già nel XIV secolo quando Boccaccio, nel Decamerone, fece giocare a Buffalmacco un trucco su Calandrino, dandogli due fiaschi sui quali aveva dipinto il bicchiere rosso fino al collo per fargli credere che fossero pieni di vino.
Qualunque sia l’origine, il termine fiasco è arrivato a significare fallimento in molte lingue, benché in senso ironico o beffardo. È diventato un termine comune per i fallimenti aziendali, per deludenti opere teatrali, cinematografiche e artistiche, nonché una parola d’ordine roboante nei titoli dei tabloid britannici, come in un recente striscione: BREXIT FIASCO!
Le mie esperienze di fiasco nel senso di flop sono troppo numerose per essere raccontate nel dettaglio, quindi limiterò le citazioni ad alcuni incidenti legati alla carriera, a cominciare dalla decisione di lasciare una posizione prestigiosa e ben pagata come capo redattore dell’International Herald Tribune di Parigi per inseguire il sogno di scrivere un libro “best-seller” sul vino italiano come scrittore free-lance (ossia non stipendiato), lavorando da un casale rustico e senza telefono nelle selvagge alture della Toscana.
Quel libro, Vino, pubblicato nel 1980 dopo essere stato rifiutato da almeno una dozzina di editori, non è diventato un best-seller così l’ho considerato un fiasco. Eppure ha portato alla pubblicazione di numerosi altri libri sul vino e cucina, alcuni dei quali sono stati regolarmente ripubblicati con vari titoli cresciuti a più di un centinaio a cavallo del secolo, quando ho smesso di contare. Sebbene nessuno di quei libri possa essere considerato un fallimento letterario di per sé, nessuno di essi ha mai soddisfatto le mie aspettative in termini di copie vendute e di denaro guadagnato con i diritti d’autore o altre forme di compensazione. Non sono uno di quegli autori che considerano un successo la semplice stampa di un libro, anche se alcuni di quei volumi sono stati pubblicati da importanti case editrici negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania e persino in Giappone. Insomma, un fiasco internazionale di proporzioni colossali. Oltre a questo ho iniziato una serie di opere letterarie che non ho mai completato, quindi da considerare come flop potenziali. Questi includono una coppia di opere che intendo pubblicare ancora, qualunque cosa accada, anche se solo un inguaribile ottimista – che io non sono – si aspetterebbe che diventino successi commerciali.
Al di là delle considerazioni letterarie, più volte ho tentato di fare un po’ di soldi cercando di avventurarmi nel mondo proibito degli affari legati al vino, pur mantenendo la mia posizione di scrittore incorruttibile. Inutile dire che tutti quei tentativi si sono trasformati in fiaschi.
Ecco perché negli anni ’80 ho fondato Fiasco Enterprises Ltd, descritta decenni dopo nel mio blog Beyond Vino (che, inutile dirlo, ha fallito) come un’organizzazione no-profit orientata al sostegno di perdenti, dimenticati, reietti e assortiti casi umani.
Fiasco Enterprises? Eccomi, sono io.
Nota dell’editore
Un ringraziamento per il prezioso contributo a Burton Anderson, nome tra i più illustri della critica enologica mondiale, e un ringraziamento a Giampiero Pulcini, che ha fornito un valido supporto alla pubblicazione.