di Giampiero Pulcini
Otto e dieci di mattina, dal grigio sporgono le nuvole nere che hanno scaricato pioggia per tutta la notte. Incrocio intasato, cerco la compagnia dei visi nelle altre macchine trovandomi ancora più solo: una ragazza imbronciata litiga col vivavoce, un signore fissa basito la stella sul cofano della Mercedes, nel baule di un monovolume due dobermann paiono ipnotizzati dai led di una farmacia.
Al cuore del gorgo, centrato da un raggio di sole, un uomo indossa un gilet catarifrangente due taglie più grande, manicotti e cappello dello stesso tessuto. La teatralità dei gesti compensa la goffaggine della divisa. Volteggia come un derviscio stravolgendo il repertorio posturale della categoria: un carisma che calamita ogni mezzo, con frenate e accelerazioni incoraggiate da galanti protensioni del busto. Vigile urbano per funzione, tanguero per vocazione.
La congestione del frangente – cinquanta auto in duecento metri, ciascuna con a bordo il conducente e basta – è resa meno insensata dal pizzardone bohémien al cui posto nessuno vorrebbe essere, l’unico che stia facendo qualcosa di utile. La simpatia per il ruolo si tinge d’ammirazione per il modo. Nessuna forzatura, dev’esser proprio così quello lì; e chissà che spasso vederlo ondeggiare tra gli scaffali di un supermercato o riordinare un garage, smessi i panni da direttore di traffico.
Lo immagino mentre trattengo tra i denti l’asprezza de L’Essenziale. Non per caso ronzano in testa le parole del suo autore, Marco Durante.
“Vorrei arrivare a fare un vino senza stile, dove cioè lo stile sia talmente dentro di me da non doverlo inseguire pensandolo. Uno stile non progettato, figlio di quella cultura che mi ha così permeato da diventare un istinto.”
L’urto degli incontri con Il Signor Kurtz, innescato dal pungolo di una consonanza che anticipa spesso qualcosa di me, è stato per questo vino più brusco del solito. Rimasi male per il profumo tradito da una bocca ispida, incapace di dare continuità alla soavità di rose e di more.
Mescolanza di malvasia bianca e nera, sangiovese e forse merlot da un angolo ombroso di una vecchia vigna in affitto, posta su argilla a quattrocento metri di altezza nel comune di Piegaro.
Vin de soif non per strategia ma per necessità, esito di una parcella malmessa votata da decenni alla produzione di liquidi quotidiani e domestici. Vendemmiare anche quel lembo è stata la condizione imposta dal proprietario per concedere a Marco/Kurtz il prestito di una mastella utile al completamento di altre vinificazioni.
Uve colte a fine Ottobre ma sarebbero rimaste acerbe pure a Natale, fermentazioni separate di bianco e rosso concluse in tre giorni a dieci gradi alcolici, rinforzo di torchiatura sull’assemblaggio e imbottigliamento dopo un mese.
Prodotto nel 2018, non sarà replicato e in giro non ce n’è più; ogni meteora, del resto, è inconciliabile con l’idea di abbondanza.
È stata un’acidità spaesata ma vivida, la sua distillazione di gentilezza olfattiva in ossificazione di tocco, a regalarmi il sussulto di cambiare idea. Un sorso buttato giù senza pensare ha ribaltato il fastidio in vicinanza: mi sono riflesso in quell’impasto slegato di ascesi e frenesia, in quella compiutezza non all’altezza. Ho sorriso al bicchiere con uno strano senso di gratitudine.
Ammiro le etichette prestigiose ma per sentire un vino amico ci voleva questo, L’Essenziale, che non ha quasi niente.
Il ricatto senza coltello dalla parte del manico, la risata spastica davanti alla casa che crolla, la poesia scritta da quello che non sapeva leggere capace di fermare il respiro e in quell’istante ricordarti chi sei.
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