di Raffaella Guidi Federzoni
Adesso che il vino in cantina fa da sé e la stagione dei viaggi non è ancora iniziata, potremmo fermarci a pensare. Il condizionale è d’obbligo perché forse sarebbe meglio di no. Sarebbe preferibile continuare a sognare, a ricamar spirali poetiche intorno a quel che significa coltivare una vigna e produrre vino, farlo lontano dalla bruttezza di una civiltà umana che consuma senza né chiedere né voler sapere.
Purtroppo invece devo abbandonare il condizionale romantico ed utilizzare l’indicativo realista.
Mi devo fermare non solo per pensare, soprattutto per preoccuparmi.
Succede che l’omino arancione al di là dell’oceano ha deciso di punire l’Europa in generale e l’Italia in particolare per colpe che esulano dal mondo enoico. Lo ha fatto minacciando di aumentare seriamente i dazi di entrata e di commercio interno per i vini italiani. Tale minaccia potrebbe essere immediata, a partire da questo gennaio.
Questo gennaio quando i magazzini dei distributori americani chiedono di essere riempiti di bottiglie anche nostre. Questo gennaio quando i ristoranti iniziano a formulare una nuova lista dei vini da proporre. Questo gennaio quando in molti luoghi statunitensi fa ancora freddo e l’idea di un buon bicchiere di vino aiuta a sopportare il gelo e il buio di un futuro incerto persino per chi continua a credere a parole roboanti e rassicuranti. Questo gennaio quando non abbiamo nemmeno uno spicciolo salvato dai saldi e nelle nostre cantine i cartoni sono pronti impilati su pallets in attesa di partire.
Quindi molti di noi gravitanti intorno o lavoranti all’interno del mondo vinoso rischiano di essere lasciati col culo per terra perché il nostro maggiore acquirente, l’odioso americano che sbeffeggiamo per tanti motivi culturali e politici, ma che corteggiamo per ottime ragioni economiche, non ci vuole più bene come un tempo, anzi ci considera nemici.
L’Antico Amico Americano rischia di diventare il Nuovo Affossatore dirigendo verso il nostro campicello un missilone-one-one che può provocare un cratere incolmabile nelle nostre già magre tasche.
Il tempo di fare finta che NO, il mercato statunitense non è poi così importante, è finito. La realtà spietata è che per la maggior parte – la stragrande maggior parte – dei produttori italiani gli USA sono tutt’ora il porto sicuro, il terreno fertile, lo Zio Paperone, per vendere, incassare, comunicare, diffondere il verbo italico vinoso.
Allora che fare?
Negli Stati Uniti gli addetti ai lavori si sono mossi con velocità e – speriamo – con incisività. In Italia la notizia è stata accolta con la consueta calma dalle istituzioni, con la solita rabbia dai vignaioli, con un certo distacco dagli organi di comunicazione più o meno specializzati.
Il muoversi consiste nel protestare, cercare di sensibilizzare, di scriverne ovunque, persino sui muri scialbati. Tutto pur di non sentirsi inutili e disarmati di fronte a volontà altrui che esulano di molto dalla nostra.
Magari il muoversi consistesse nel volare al di là dell’Oceano per prendere a schiaffoni quella Testina Arancione! Sebbene anche questo servirebbe a poco.
Per cui rimango qui seduta muovendo i polpastrelli sulla tastiera e le cellule grigie sopravvissute nel mio cervello piccolo di foemina sapiens.
Dopo aver lustrato le suddette cellule, leggendo gli interventi numerosi e più o meno efficaci, anche se molto illuminanti come per esempio (qui), posso lucidamente cercare di immaginare i seguenti diversi scenari:
1) Non succede niente perché Orange Dick Head si distrae grazie al Medio Oriente e a chi gli chiede di uscire a giocare in quel cortile sassoso. Improvvisamente l’amicizia con gli europei, italiani inclusi, diventa fondamentale per non perdere la partita e la faccia. La minaccia viene ritirata e tutto finisce a tarallucci e vino.
2) I dazi vengono applicati, ma solo in teoria. Viene trovato un espediente per cui la tassa di ingresso è azzerata grazie ad una legge federale che riduce le tasse sugli alcolici negli stati del Colorado, California, New York, New Jersey, Massachussets, Texas, Illinois, Florida. Questo fa sì che gli altri stati si organizzano per muovere magazzini oltre i confini federali. Nuovi posti di lavoro vengono creati e l’amministrazione americana è tutta contenta. Le importazioni di vino invece di diminuire aumentano, ma nessuno lo fa presente al Presidente che è tutto occupato dalla sua campagna elettorale.
3) I dazi vengono applicati duramente sul serio. Falliscono tante piccole società di importazione/distribuzione, tutte di proprietà statunitense. I ristoranti italiani per sopravvivere mettono in carta vini californiani col risultato che la maggior parte della clientela abituale li abbandona a favore di ristoranti ispano-portoghesi con in carta vini sudamericani. Questo si traduce in aumento dell’immigrazione messicana ispano parlante anche in stati lontani dal confine meridionale. Tale squilibrio viene fatto presente al Presidente il quale promette un cambiamento non appena rieletto.
3b) I dazi vengono applicati duramente sul serio. Per far fronte all’emergenza, in Italia vengono stanziati dei fondi in aiuto alle popolazioni di vignaioli colpiti. I contributi OCM vengono distolti dagli USA e dirottati su mercati classici come Canada- UK (nel frattempo uscita dall’UE), o quasi nuovi come Cina-Giappone-Corea del Sud – Russia. Quest’ultima improvvisamente agevola l’importazione di vini italiani per fare un dispetto al Ciccione Arancione.
Ora basta, ho giocato fin troppo con le mie cellulette grigette. La dura realtà è che ci si aspetta una sofferenza autentica in termini economici, non solo per noi qui in Italia, anche per tanti nostri compagni di avventura al di là dell’Oceano. Persone che si alzano la mattina per andare a lavorare in nostra vece. Umani che credono nel nostro vino e nelle nostre capacità di non essere forse migliori, ma diversi. Uomini e donne curiosi di conoscere la nostra cultura e il nostro paese pure attraverso il contenuto di una bottiglia.
Non ho dimenticato nessuno dei visi e delle voci che mi hanno accompagnato durante le mille visite per le strade della California, sui marciapiedi di New York ed in innumerevoli altri luoghi.
Questo vorrei che fosse comunicato da qualche lobby potente al Sor Cocimelova Mister President: la formula restrittiva di una tassazione esagerata negli US non mette fuori gioco l’economia di un paese vinicolo come l’Italia. La colpisce sì, ma non l’affonda. Quelli che vengono veramente danneggiati sono i suoi compaesani, nati e cresciuti a casa sua. I quali compaesani magari l’hanno anche votato pensando di essere protetti e sostenuti e non fregati.
Un paese come l’America che è nell’immaginario collettivo il simbolo della libertà di azione e di mercato, si trova sempre più limitato nei movimenti e nelle scelte.
Un paese come l’America, in cui tutti possono diventarne il President, persino Donald.
PS chi volesse dare un segnale di schifo per i possibili dazi e sostegno i vignaioli italici può firmare questa petizione