di Fabio Rizzari
Mi dispiace riportare bruscamente alla realtà gli enogastrofanatici, i loro fiancheggiatori e i loro simpatizzanti: noi non siamo ciò che mangiamo. Di più: non siamo nemmeno ciò che beviamo.
Quando ho iniziato il mestiere, verso la fine degli anni Ottanta, nei salotti il cibo e il vino erano tutto meno che argomenti “alti” e “degni”. Se dicevi di lavorare nell’enogastronomia ti guardavano con bonaria condiscendenza, e magari ironizzavano pure.
Mica ti occupavi di arte, o di musica, o di cinema, o di letteratura, o di architettura eccetera.
Il tempo è passato. La battaglia per dare dignità culturale alla materia è stata combattuta e vinta. Fin troppo rapidamente e fin troppo abbondantemente. Ora siamo approdati alla riva opposta: i cuochi sono divenuti chef, e poi artisti tout court.
Marchesi come Caravaggio. Bottura come Tiziano. Barbieri come il Parmigianino (per contiguità territoriale).
Lo stesso nel vino, è ovvio. Non faccio altri paragoni perché ci siamo capiti.
A lungo negletti, il gusto e l’olfatto si sono presi una ricca rivincita.
Però ora penso che possa bastare, eh.
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