Citroën al seltz

Citroën al seltz

di Floriana d’Amely

“Questo è quel mondo?”
Leopardi

Era quella, esattamente quella. Lunga, sorniona, i grandi occhi a mandorla nel profilo ogivale; aveva solo cambiato colore: era carta da zucchero e non grigio metallizzato, come quella che mio padre avrebbe voluto comprare e che aveva gli interni del velluto rosso scuro di un manto regale. Quando sentivo pronunciare da mio padre quell’aggettivo tanto dissetante, metallizzato, la lingua e il palato mi sfrigolavano in bocca come quando succhiavo le caramelle Seltz.

E una schiuma leggera mi riempiva di attese e di impazienza, come quella con cui, a piedi nudi, aspettavo di entrare nella vasca mentre la schiuma profumata del Badedas lievitava vertiginosamente sotto lo scroscio dell’acqua: anche se poi mai, a contatto col corpo, quella schiuma riusciva a mantenere per più che una manciata di secondi quello stato sublime.

La linea lussuosamente avveniristica e insieme morbida della DS, come la chiamava confidenzialmente mio padre, era tutt’uno per me con il logo della Pfizer, una scritta bianca dentro un ovale blu, che era per me la firma della grandezza di mio padre, della sua misteriosa vita fuori i confini di Piazza Crati: la ditta gliela avrebbe venduta, usata, a una cifra plausibile.

Ma mia madre si era  opposta, come un giorno si era opposta a una camicia da notte nera, bretelline sottili e molto pizzo, che mio padre le aveva portato da Milano e che a Milano fu immediatamente rispedita: “non sono ancora morta”, gli aveva detto dopo averla vista. “Io invece l’avrei tenuta”, avevo pensato di nascosto io. E da adolescente, frugando tra i vestiti di mia madre, ho rimpianto tante volte di non averla trovata abbandonata in un cassetto, magari ancora avvolta nella carta velina che la proteggeva come una cosa delicata e preziosa dentro quella scatola piatta e rettangolare, e filante come la DS, che era restata giusto qualche minuto aperta sulla tavola prima di scomparire: avrei dovuto trovare altri modi per  ricamarmi addosso quell’impalpabile trappola.

Per un po’ di tempo quel nome rotondo e gustoso, Citroën DS Pallas, era apparso e scomparso tante volte tra una portata e l’altra o si era fermato su certi fogli che mio padre riempiva febbrilmente di ipotesi e di calcoli, con la sigaretta nella sinistra a tenere – obliquo – il foglio su cui la destra disegnava in verde petrolio i suoi magnifici ideogrammi; ma un giorno, dopo un giro di prova per il quartiere, con le mani incredule poggiate sulla carezza del velluto, mia madre aveva in fine tirato un frego netto e obliquo, definitivo, su quel nome e su quei fogli, strappando d’un colpo la tela di attese che ero andata lentamente tessendo nello specchio concavo del mio imminente futuro.

Quando molti e molti anni dopo, arrivando a bordo della mia Volvo, occhiali scuri e passo deciso, l’avevo vista parcheggiata con una naturalezza irragionevole nel piazzale del distributore, quel nome rotondo e gustoso, Citröen DS Pallas, mi risuonò in bocca con un’acutezza amara che non ricordavo; era ben tenuta, certo, lucida e liscia, ma di un colore che mi sembrò innaturale e privo di riflessi, come sono certe tinture  per capelli troppo uniformi e nette.

Aveva una grinta composta e un po’ dimessa, senza regalità e senza brio; ed era più mansueta di come la ricordassi, in quel disagio malcelato che trapelava dalla ruote posteriori parzialmente nascoste sotto il parafango: quelle che allora mi erano sembrate la cifra stessa della loro esclusività e che ora mi apparivano la bandiera a mezz’asta della propria sconfitta.

Le sue linee avveniristiche cozzavano contro quel futuro che era nel frattempo trascorso, trasformandola in una vecchia cartolina ritoccata, arrivata troppo tardi al nuovo inquilino di una casa che era rimasta a lungo abbandonata.

One Comment to “Citroën al seltz”

  1. La DS Pallas, il mio desiderio di sempre, non quello di altri componenti della mia famiglia a cui proprio non piaceva.
    Un mio carissimo amico e testimone di matrimonio, vista la mia fissa, mi regalò circa 30 anni fa una macchinetta in scala, colore carta da zucchero. Fini’ purtroppo distrutta da mia figlia a cui piaceva simulare tremendi scontri contro il muro.
    Ci ho viaggiato per anni essendo la macchina del padre di un amico d’infanzia. Morbida, profumata, accogliente, una piazza d’armi. Seduti dietro, ai piedi del sedile, avevamo tutto lo spazio per giocare. Ne ho frequentate due: una verde bottiglia ed una grigia “caramelle al selz”.

    Bello lo scritto ed ispirata Floriana d’Amely

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