di Giovanni Arpino
Introduzione
Nella rivista «Tempo», anno XXVII, n.15, del 14 aprile 1965, Giovanni Arpino pubblica una lettera a Totò che è un vero encomio pubblico. La riportiamo più sotto. Una circostanza eccezionale e preziosa, perché rarissima. Quasi un unicum, nei fatti. All’epoca Totò era considerato dalla maggior parte della critica e del mondo degli intellettuali un guitto di serie C e D.
Quasi solo Pasolini ne aveva còlto la grandezza, che avrebbe cercato di far risplendere di lì a pochi mesi in Uccellacci e uccellini (1966). Per il resto grande maggioranza di recensioni sprezzanti (Gian Luigi Rondi e altri decerebrati); oppure, al massimo, qualche non convinta e condiscendente apertura di credito (tra le quali, spiace ricordarlo, anche quella di un qui miope Mario Soldati).
Ad Arpino ogni onore e gloria, dunque, nei secoli dei secoli. Amen.
F.R.
Caro Totò, con tutto il rispetto che ho per lei, principe Antonio de Curtis di Griffo-Focas, non mi riesce di cominciare questa lettera senza premettere, appunto, un “caro Totò”… La ricordo nella rivista I’ “Arcidiavolo”, subito dopo la guerra, e poi per un’infinità di film, dall’imperatore di Capri”a “Diabolicus”. Con amici torinesi e poi milanesi si partiva e si parte in spedizione per cinemini pidocchiosi di periferia dove le sue vecchie pellicole richiamano ancora centinaia di spettatori. Certe sue battute, certi suoi lazzi, certi suoi interventi assurdi nel discorso altrui, sono stati adottati da molte conventicole — di studenti, di gente ormai anziana, di operai, di intellettuali — come risorse verbali che pongono un punto fermo al discorso.
Mille volte è stato detto che lei, come attore, come Totò, cioè come maschera del cinema italiano, non è stato adeguatamente sfruttato dai registi. Ma sono d’accordo con Moravia che ha asserito come la libertà di Totò, la sua mimica, la sua inventiva, abbiano bisogno di espandersi, magari disordinatamente, magari senza motivi, e non richiedano una particolare disciplina sintattica, un’obbedienza ai canoni registici, una costrizione e un pudore applicabili ad altri comici.
Lei è il “pater et magister” di una grossa vena della comicità italiana. Senza di lei, molti non sarebbero nati, moltissimi non avrebbero avuto spunto per campare. La sua assurdità, il suo essere “pazzeriello” insieme triste e cosciente, insieme folle e marionetta, hanno costituito pane e sale per tre generazioni, non solo di spettatori, ma di comici. L’hanno imitata nel cinema e nell’avanspettacolo, alla televisione e negli “inserti” pubblicitari, nei salotti e nei circoli goliardici. Lei non ha più età, come per milioni di italiani non ha un nome, un blasone, un indirizzo, una vita privata. Lei, come Totò, è un formulario dell’arte comica, una ricetta, un instancabile “robot”; una pillola esilarante da trangugiare nel grigio del vivere quotidiano.
In una doppia intervista concessa da lei e da Franca Faldini, ho letto cose curiose. «Mio marito è un uomo onesto, terribilmente onesto, e buono, profondamente buono», ha detto Franca Faldini. «Sono un uomo dai sentimenti all’antica, che forse nel mondo d’oggi può sembrare noioso», ha contrappuntato lei, con la serietà, addirittura la virile, mediterranea malinconia che la contraddistingue quando riceve nella sua casa e non veste i panni “esterni” di Totò.
Superstizioso, innamorato degli animali, accanito lavoratore ma con un insopprimibile fondo di pigrizia napoletana, taciturno ma con educatissimi scoppi di allegria, tetro nel giorno del proprio compleanno, che lei ama trascorrere in grave solitudine, ecco il principe Antonio de Curtis che noi non conosciamo, che forse non vogliamo conoscere.
Noi amiamo le sue ripetizioni, le sue apparizioni improvvise e deleterie (deleterie perché imprimono un movimento catastrofico alla modesta logica delle avventure filmiche in cui lei è coinvolto), noi amiamo abbandonarci alla risata e al sorriso che scoccano dalla sua persona durante lo spettacolo, sia lei un principe arabo, un viaggiatore di seconda classe, un assassino, un ciclista, un ladro, uno sceicco, un matto, un colonnello, un fantasma incatenato.
Lei ci ha raccolti appena usciti dalle pappette dei telefoni bianchi, ci ha accompagnati attraverso il neorealismo cinematografico, non ha perso colpi durante i tempi di “Helzapoppin”, ha scavalcato i Gianni e Pinotto (chi li ricorda più?), ha proseguito oltre Jerry Lewis, ha tenuto botta a Danny Kaye, ha marciato sul suo binario ai tempi migliori di Sordi, ha mille volte contraffatto gli altri e se stesso, ovunque spandendo energie, magari ripetendosi, magari obbligandosi a tenere in piedi pellicole da quattro soldi. E noi, quasi sempre, pur vedendola invecchiare (mi scusi!), pur vedendola perdere lo scatto e il ritmo slogato di un tempo, abbiamo continuato non solo a ridere, ma a scoprire particelle di oro in un fiume caotico, arruffato, confezionato alla bell’e meglio.
Due ore di godimento
Forse il suo più grande film sarà una scelta antologica di tutti i vari Totò, i brani classici di un personaggio che ha travisato i termini della vita per ingabbiarla in una rete assurda, babelica, ma proprio per questo definitivamente rivelatrice. Non mi spiego perché un uomo di cinema — un uomo come Blasetti, tanto per fare un nome, cioè una persona in grado di manipolare spezzoni cinematografici come un artigiano manovra i suoi strumenti — non si sia ancora impegnato a selezionare l’enorme materiale da lei interpretato, per trarne due ore di godimento assoluto. Credo che un film simile — un’enciclopedia dì Totò — porterebbe al produttore un incasso strabiliante, consolerebbe gli amanti dei film comico costantemente delusi dai prodotti italiani correnti, volgari e senza invenzioni, e supererebbe l’antologia di un Harold Lloyd, marionetta assai più scarsa e sfibrata nel suo rapporto con la vita americana che gli era contemporanea di quanto lei, Totò, non lo sia con la vita italiana dei suoi tempi.
Perché lei, anche se nessuno si sogna di dirlo, ha disegnato un italiano-tipo che non ha nulla a che fare con le caricature dei comici più correnti. Lei ha colto un italiano che non ha bisogno di essere trafitto nei suoi difetti più vieti, la falsa smania gallista, la turbolenza sentimentale, tutti quegli ingredienti che forse, per un minuto, fanno ridere, ma che si sanno ben circoscritti a un determinato ambiente, a determinate abitudini.
A me è sempre piaciuto, tra le righe, il suo italiano figlio della burocrazia, che parla del linguaggio da ufficio, che è matto ma a suo modo inserito in un sistema giuridico ben preciso, dove esistono gli avvocati, le corti d’assise, le preture, i carabinieri, gli ospedali, la carta bollata, gli uscieri, i controllori dei vagoni letto, le guardie civiche, i metronotte, i portinai, insomma tutta la gerarchia temporale di una vita civile che si dipana a fatica.
Negare a Totò questo personaggio, polivalente ma con costanti assai ben rintracciabili, e costringere Totò alla semplice funzione di maschera, è il grave errore che hanno commesso i critici nostrani.
Sia sceicco o “Diabolicus”, sia schiavizzato o meno da necessità di ordine commerciale, sia sbattuto tra cartoni che fingono l’Egitto e i Faraoni oppure una clinica oppure una corsa ciclistica, lei è sempre riuscito a dare un’unghiata a questo italiano soggetto alla burocrazia. Persino il suo linguaggio, dal famoso “a prescindere” fino alle trovate ultime più estemporanee (ricordo con voluttà la descrizione dell’arteriosclerotico che pedala sulla “cyclette” in camera da letto e che si ritiene investito da un incredibile camion uscito di dietro un comò, nell’orribile film “Le belle famiglie’), persino il suo linguaggio è una trovata inventiva applicata a una certa categoria di “persone di buonsenso”, meridionali ma non solo meridionali, pratiche di conversazioni in studi di avvocati, pratiche di ministeri, e schiave di formulari sintattici, di interiezioni inconsapevolmente irresistibili, o che diventano irresistibili quando si valgono dell’accento, delle sottolineature tonali di Totò.
E poi mi piace la sua funebre ironia: che si dimostra nella pletora di film gettati sul mercato, che è conscia come in questo paese chi non sta a galla, chi non si mette in mostra una volta all’anno è da considerarsi defunto; che è ben avvertita di come bisogna essere presenti a dispetto della propria pigrizia, del proprio senso di morte, persino della propria utopistica necessità di denaro. Quest’umana ironia è quanto di più classico esista in lei, e peggio per chi, critico o spettatore, non lo avverte.
Un omaggio dovuto
Prima di scrivere questa “lettera”, e preoccupato come sempre di una documentazione che ritenevo indispensabile, ho parlato molto di lei con persone d’ogni tipo: dallo spettatore che le è fedele da decenni a chi ha avuto rapporti di lavoro col Totò attore-principe. Sono venuti fuori aneddoti a bizzeffe: si sono fatti nomi di attrici famose, sono state scandagliate le storie dei suoi cani, anzi dei suo canile romano, le storie del suo pappagallo Gennaro, inevitabilmente mi hanno ricamato pettegolezzi che riguardano donne, contratti, intemperanze sul “set”, eccetera eccetera.
Ho già dimenticato tutto
Totò non lo si va a documentare come fosse un sottosegretario al governo, Totò non ha bisogno di un piedistallo di pezze di appoggio sotto i calcagni, Totò non ha necessità d’essere visto attraversò lo specchio deformante di dicerie applicabili al solito italiano di turno. Si critica e si sparla del primo piatto, del piatto di portata, magari del gelato e delle frutta, ma mai del caffè. Anche se per caso il caffè non riesce bene, non gli si parla addosso. E’ semplicemente indispensabile. Guai se non ci arriva, guai se ritarda il suo momento. Questo omaggio le era dovuto, principe Antonio de Curtis. Non mi era certo possibile essere “scontroso”. Lo sono tuttalpiù, in questo caso, coi tempi.
Se il nostro Paese fosse più civile, più ordinato, più semplice da vivere, più rispettoso di se stesso, anche la sua posizione — come Totò, dico — sarebbe diversa.
Lei potrebbe illuminarci ogni sera, in cinque minuti televisivi, con un commento ai fatti del giorno: dopo il telegiornale, i cinque minuti di Totò e il suo “saper dire”. A sua libera scelta, potremmo ascoltarla parlare su ogni cosa: su un delitto, su una disposizione ministeriale, sugli astronauti, sulle difficoltà economiche, sul suo pappagallo Gennaro, sui giovani o sui partiti.
Sono sicuro che la sua funzione assumerebbe toni critici tutt’altro che qualunquisti. Sono sicuro che finiremmo per ridere (e quindi capire) di cose altrimenti troppo fluttuanti. Dopo tutto apparteniamo a un popolo che si esprime più a gesti che a parole. Una sua smorfia potrebbe aiutarci a mettere nel giusto quadro una tiritera dell’onorevole Moro o la questione degli alberi abbattuti dall’ANAS.
Questo è quanto meritava il suo Totò: un agire concreto, un calarsi nelle verità spicciole per tirarne fuori, alla lunga, di grandi e comuni.
Non è per sua colpa se non gli è riuscito, se troppe volte è scomparso tra i fumi dell’assurdo, del marionettistico, dell’acrobazia verbale e narrativa, come un aquilone che non ha mani capaci di tenerlo in contatto con la terra.
E tuttavia, la nostra attesa è ancora vigile: aspettiamo Totò nei panni di Lawrence d’Arabia, nei panni di 007, nei panni di Tom Jones. In attesa della famosa antologia che i produttori ciechi non sanno costruirci, ci accontenteremo degli spiccioli.
E soprattutto continueremo, seduti davanti a pellicole pompose, costose, seriose, a congetturare come filerebbero meglio se all’improvviso, invece di questi attori plasticati sulle gote, con parrucchini e petto dilatato, apparisse lei, travolgendo le belle, siano esse la Taylor o la Andress, la Loren o la McLaine. Seduti e rassegnati nelle nostre poltrone, abbandonati al triste vizio serale dello spettacolo, sogniamo questa improvvisa pressione sull’acceleratore del film. Più esso è serio, più esso è impegnato, più svirgola i suoi messaggi, più finge arte, più noi sogniamo lei, per rivalsa e libertà interiori oltreché per legittimo desiderio di ricavare profitto dal denaro speso. Sogniamo lei che contraffà l’eroe, il maliardo, il vincitore, insomma il Fesso. Aspettiamo sempre, Totò!
Creda al più devoto augurio di
Giovanni Arpino
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