di Camillo Favaro
Probabilmente era il 2004 e di vino sotto i ponti ne è passato parecchio, eppure quel giorno lo ricordo, nitido, paradossale e raggelante. Per mestiere, oltre che produrre vino nel mio amato Canavese, mi occupo di comunicazione a supporto di aziende vinicole. Quelle che devono disegnare un’etichetta o devono mettere in pista una qualche strategia di marketing, capita che si rivolgano a me e alla nostra agenzia. Questa è la mia fortuna, mi permette di vivere dignitosamente e di fare quello che mi piace fare.
Viaggio, assaggio, conosco, imparo. Insomma, vedo gente e faccio cose. Negli anni ne ho viste (e assaggiate) di tutti i colori, dal fenomeno all’incompiuto, dall’astro nascente al brodo ossidato imbottigliato in Luna calante. Anche di personaggi ne ho incrociati un certo numero, oggi alcuni ho la fortuna di poterli chiamare amici, altri sembrano usciti dalla sceneggiatura di un film di Totò. Ecco, quel giorno di quasi vent’anni fa ho conosciuto una comparsa da teatro che però, a ben pensarci, fa ridere di un riso amaro, corretto a dovere con tannino dolce e acido tartarico.
Lo scenario è quello di una delle tante cantine sociali siciliane, di quelle con le cisterne talmente grandi da sembrare raffinerie. Incontro l’enologo interno, che in contesti come questo rappresenta un’eminenza che tutto può e tutto sa, prevede il futuro e conosce perfettamente il passato. Nulla sfugge al suo sapere e la sua parola è quella di un oracolo.
Ai tempi l’uomo era sui sessanta suonati da un pezzo e quel giorno non vedeva l’ora di farmi assaggiare le sue creature. Vini nei quali la tecnologia enologica è palese, senza il minimo tentativo di metterla sotto copertura. I migliori erano bianchi o rossi da supermercato dignitosamente bevibili, i peggiori suggerivano immediatamente di lasciare ogni speranza. Più o meno si trattava di questo.
E fin qui tutto bene, con ottimismo e coraggio da Rocky Balboa. Ad un certo punto l’uomo si ricorda di essere anche un genio della lampada e dopo aver pontificato in merito ai suoi gioielli che non vengono apprezzati come meritano, inizia a sparare a zero sui vini piemontesi, veneti e toscani che, a suo dire, sono assolutamente sovrastimati. Fa di tutta l’erba un fascio, ovviamente, esonda come un fiume in piena sostenendo che il nebbiolo è troppo tannico, il sangiovese troppo rustico e via discorrendo, senza omettere nomi e cognomi (la classe, non essendo acqua, è vino sfuso).
Finalmente arriva al dunque “Dottò, se lei conosce qualcuno che ha bisogno di vini come quelli che fate al nord ma senza difetti, me lo dica”. Non capisco e chiedo lumi “Dottò, lei mi mandi un campione di un vino che vorrebbe avere e io glielo faccio, tale e quale”. Ora ho capito. Ricevuto, forte e chiaro. D’altronde l’enologo può essere l’anello mancante tra Gesù Cristo e Giucas Casella. Tutto può, a crederci e pagando il giusto.
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