di Fabio Rizzari
“Ricordo bene la notte del Mundial 1982, ero…” il figlio diciannovenne di un amico mi interrompe con aria di sufficienza: “ho sentito questa storia cento volte da mio padre, è ‘la’ storia da boomer per eccellenza”. “Vero”, gli rispondo, “ma ancora usi l’espressione ‘boomer’? è roba vecchia”.
Troppo tardi, non mi ha sentito. È già in un’altra stanza.
Ecco dunque la versione personale della storia da boomer per eccellenza (per la verità ce ne sarebbe un’altra ancora più boomeresca, la semifinale Italia-Germania del 1970, ma soprassediamoci).
Ero nel massimo del vertice della vetta della sommità della cima del picco del punto più alto della giovinezza. Avevo infatti 22 anni.
Era l’estate dei 22 anni. No dico, eh? no dico, eh?
Non si può immaginare un momento più struggente della propria parabola esistenziale. Agguerriti concorrenti i 18, i 19, i 20 e i 21 anni, ma i 22 sono meglio in quanto palindromi.
Tutte le partite precedenti, a esclusione dell’insipido e preoccupante girone iniziale (solo insulsi pareggi), le avevo viste a casa De Zorzi, dall’amico mezzosecolare Paolo. Come capitava in ogni casa italica, dopo la vittoria con l’Argentina (2-1, ma ci hanno rubato almeno un altro gol) ci si sedeva allo stesso posto, si mangiavano le stesse cose, si compivano gli stessi gesti alla stessa ora. Nei casi più paranoici si dicevano le stesse cose; con lo stesso tono di voce, per giunta.
La sera della finale arrivo già con il fiato corto e una forte tachicardia. Citofono, mi aprono e mi lasciano la porta di casa aperta: la famiglia De Zorzi era in cucina a preparare la cena. Pensavo che qualcuno fosse comunque in soggiorno, e là mi affaccio salutando con un “buonasera” standard. Dal televisore, che era acceso ma fino a quel momento senza suoni di sorta, mi “risponde” Nando Martellini: “buonasera”.
Un bell’esordio.
Della partita – in quanto stringa di vita vissuta – ho ricordi confusi, lo stato allucinatorio mi impediva di memorizzare alcunché. Si affaccia qualche frammento: Cabrini che sbaglia il rigore, un’insalata russa spettacolare ma ingurgitata in trance, le urla trogloditiche dopo il gol di Rossi (straordinario il commento successivo di Martellini, italico fino al midollo: “mancano 33 minuti alla fine della partita”).
Pertini, il sommo Pertini, l’amatissimo Pertini, che dopo il terzo gol di Altobelli fa no con l’indice della mano destra, “non ci prendono più”, non l’avevo proprio registrato, ma l’ho rivisto – 322 volte – nei mesi, anni e decenni successivi.
Dopo la partita imbarcata di gruppo nella macchina/portaerei del padre di Federico, macchina/portaerei che dopo qualche chilometro nel traffico atroce si pianta sul Muro Torto con l’acqua del radiatore in ebollizione.
Cori, canzoni stonate, barriti della folla, richieste irredentiste (come annotava un vecchio comico genovese prima di rincoglionirsi: “ora rivogliamo Nizza e Savoia!”), denudamenti (dalla cintola in su), tuffi nelle fontane (quasi tutte quelle del centro storico).
Infine: voce perduta per i tre giorni successivi e consapevolezza postuma di aver vissuto, irripetibilmente, il massimo del vertice della vetta della sommità della cima del picco del punto più alto della giovinezza.