di Raffaella Guidi Federzoni
Di recente un mio giovane amico – vabbé, decisamente più giovane – che svolge la mia stessa attività di eno-pusher in giro per il mondo mi ha confessato candidamente di non aver mai letto “Il Padrino” di Mario Puzo. Probabilmente non ha neanche mai seguito “I Soprano” e, ci metto la mano sul fuoco, mai visto “Big night” di Stanley Tucci.
In fondo me lo aspettavo. Oggigiorno si pensa che per svolgere questa professione bastino una certa pratica con le tabelle excel, la conoscenza mediamente buona dell’inglese, la faccia tosta e un blackberry sempre in funzione per far vedere che c’è in arrivo un’ e-mail più importante di chi ti sta di fronte.
Forse, ma non in New Jersey. Nessun abbinamento con la parola “mafia”, intendiamoci, solo con il concetto di “italo-americano”.
Continuando questa mia dotta, quanto inutile, esternazione, devo spiegare cosa per me rappresenti il New Jersey, soprattutto la zona al nord-est, al confine con Manhattan.
Il motto del sito che mi ospita è “longe alius”, cioè da lontano è diverso. Non so se si possa applicare a tale “non luogo”. Nel mio immaginario geo-antropologico è affiancabile a posti come Melezia* nel Lazio meridionale o Qualcosiate* nell’hinterland milanese. Se proprio mi sforzo anche Aldilàdall’Orcia* nelle zone limitrofe al montalcinese.
Lavorare in tale non-luogo vuol dire passare tanto tempo in macchina per visitare liquor store tutti omologabili ad un unico modello. Oppure entrare in ristoranti i cui proprietari sono italiani di seconda o terza generazione. Anche in certe zone di Manhattan e di Brooklyn esistono ancora questi personaggi che sembrano usciti dal libro o dai film di cui sopra. Uomini di presenza imponente, che ti nominano un paese sperduto da cui sono partiti i nonni, sicuri che tu l’abbia visitato. Per loro l’Italia è quello, qualche ricetta lontana, il mare, le colline con gli ulivi. Festeggiano tutt’ora i matrimoni o la Prima Comunione dei nipoti in modo sfarzoso. Sanno fare business all’americana, ma devi adeguarti ad un cerimoniale particolare, dargli tempo, bere tre caffè, mangiare la pasta condita col pomodoro stracotto. Intanto guardi le foto, c’è quasi sempre Pavarotti. I locali sono ingannevoli, un miscuglio etno-kitsch. La musica di sottofondo scontata, oltre all’onnipresente Luciano, anche Boccelli, il Celentano d’antan, i più moderni mettono persino Eros Ramazzotti.
Sono clienti importanti, non molto agguerriti sul vino, lo sono invece sui prezzi e anche sul rapporto personale. Se chi gli presenta i vini viene dall’Italia, deve essere italiano a modo loro. Quindi niente manager rampanti, invece molti sorrisi, un grande appetito, almeno un parente siciliano, calabrese, pugliese. E dimostrargli che per loro si farà uno sforzo in più, economico e di tempo. Gli si deve promettere che la prossima volta torneremo a mangiare, a visitarli. Devono vederci andar via onorati per essere stati ricevuti nel modo giusto.
Conoscerli ed interpretarli aiuta, a vendere e anche a divertirsi mentre lo si fa. E qui mi torna in mente la morte di Don Vito Corleone nel suo orto e l’ultima frase che mormora prima di accasciarsi “la vita è bella.” Di nuovo, non ho parlato di “mafia”, solo di un modo di rapportarsi con chi ha radici italiane ma una testa americana, New Jersey’s style.
*Ogni riferimento a luoghi e città è puramente metaforico.