di Raffaella Guidi Federzoni
Il mio momento di passaggio fra una giovinezza inconsapevole a quella responsabile fu segnato dal trasferimento dalla mia città natale al luogo dove tutt’ora abito. Lo strumento per attuarlo, la mitica Renault 4, che per brevità chiamerò R4. Per i comuni mortali patente-muniti di quegli anni le scelte erano scarse, ma quasi tutte eccezionali. Oltre alla R4 c’erano la Cinquecento, la Dyane, la 2CV, al massimo la Mini Minor. Automobili entrate nel mito, scomode ed essenziali, dentro le quali venivano consumati i primi rituali di avvicinamento fra i due sessi con notevoli acrobazie. Si guidavano bene però e nel loro essere spartane funzionavano sempre.
L’auto me la comprai con la liquidazione del primo lavoro, integrata da mio padre, fortemente dubbioso sul mio futuro in campagna, ma che si convinse a darmi oltre ai soldi la sua benedizione perché almeno andavo a fare la povera in un luogo altamente vocato per il vino.
Non si contano le strade sassose, piene di polvere e di buche, che percorsi in quegli anni. Nei brevi tragitti in piano spingevo sull’acceleratore per poi cambiare in souplesse alla prima curva, usando quella specie di maniglia di cui era fornita l’auto come il pilota di un jet. Mi sentivo infatti più su di un aereo che per strada, a sessanta all’ora affrontavo le salite come su una pista di decollo.