Amarcord – prima parte

amarcord a tavola

di Giancarlo Marino

Non riuscendo a convincermi a buttare le oltre cento bottiglie vuote che facevano bella mostra di se sui mobili della cucina, alcuni anni fa mia moglie decise che era venuto il momento di rifare la cucina. Inutile dire che quelle bottiglie non fecero più ritorno, dando vita alla raccolta differenziata di rifiuti più carica di significati che si ricordi. Da quel giorno, con grande accondiscendenza, mia moglie mi ha riservato un piccolo angolo della cucina nuova, sufficiente per una quindicina di bottiglie, che si alternano quando una nuova vuota prende il posto di una più vecchia. Di più non mi è concesso.

La dipartita non era indolore, anche perché non ho mai avuto la costanza di registrare tutte le bottiglie di vino bevute nell’arco di oltre trenta anni di esperienze alcoliche. Prima di buttare via i vuoti, decisi quindi di raccogliere il maggior numero possibile di etichette, poi amorevolmente conservate in un raccoglitore per una occasione che, prima o poi, si sarebbe verificata.

L’occasione si materializza qualche giorno fa, quando l’amico alterato Fabio Rizzari mi ha chiesto di parlare dei miei vini italiani del cuore. In mancanza di appunti e con la memoria che comincia a zoppicare, ho dovuto riprendere in mano quel raccoglitore. Ho passato diverse ora a sfogliarlo e ammetto di averlo fatto con insospettabile piacere. Da ogni etichetta è balzato fuori un  ricordo, un aneddoto, una riflessione, un amico che non c’è più, ma anche un altro vino che non ricordavo di aver bevuto e la girandola dei ricordi riprendeva così in modo sempre più vorticoso.  In poche ore ho ripercorso molte delle mie  esperienze di appassionato, l’evoluzione delle mie  preferenze, i corsi e i ricorsi, le persone e le bottiglie che hanno avuto un significato.

Non è facile scegliere tra tanti vini. Ho pensato che sarebbe stato noioso, snob e anche inutile sceglierli secondo gerarchia, anche perché i sentimenti non sempre vanno di pari passo con la presunta grandezza dei vini.

La scelta testimonia quindi alcune grandi bevute, altre forse meno grandi ma dense di significati, altre ancora meritevoli di una riflessione oggi più consapevole.

Vini che non bevo più, ma che vorrei  riprendere a bere se….
Bricco dell’Uccellone 1982 Braida.  Confesso di non avere mai avuto una passione particolare per la Barbera, ma questo vino scardinò alcune delle mie convinzioni più granitiche dell’epoca. Anche da questo vitigno un po’ bistrattato si potevano ottenere grandi vini, e per molti anni Giacomo Bologna produsse Barbera straordinarie, originali, raggiungendo a mio avviso il vertice assoluto con il Bricco della Bigotta 1989 e con Ai Suma 1989 (etichetta). Forse sono cambiato io, o forse sono cambiati questi vini, ma da molti anni non ritrovo più le sensazioni di allora e, a pensarci bene, mi mancano.

Granato 1991 Foradori. Per il Teroldego potrebbe valere quanto detto per la Barbera. Di questa annata avevo comprato un numero spropositato di bottiglie, ma era talmente buono che, pur resistendo in cantina  per una decina di anni, da molto tempo non ne ho più. E anche uno dei pochi vini che mi è capitato di riconoscere alla cieca,  merito della sua spiccata personalità. Mi mancano anche vini come questo.

Vini che non bevo più, senza un motivo apparente, ma che mi piacerebbe  riprendere a bere se….
…non temessi di rimanere deluso, come quando accade di incontrare, a distanza di tempo,  la donna che abbiamo tanto amato, e che ci sembrava bellissima.

Venegazzù riserva Capo dello Stato Conte Loredan Gasparini. Purtroppo non ne ho conservato l’etichetta, peraltro una delle più belle che siano mai state concepite,  e quindi non ricordo l’annata esatta; ma si trattava con certezza di una bottiglia della metà degli anni settanta. Dopo quella, si susseguirono molte delle altre annate a seguire. Ad un certo punto del mio percorso, però, gli uvaggi bordolesi (anche se in questo caso, oltre a Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot dovrebbe esserci un saldo di Malbec)  iniziarono a perdere appeal e questo vino pagò probabilmente per colpe non sue. Il rischio di averlo idealizzato è effettivamente alto, allo stesso modo come  potrebbe accadere con il primo amore,  ma questo  è uno di quei casi in cui varrebbe la pena correrlo, perché credo sia uno dei più grandi bordolesi italiani mai prodotti, a mio umile giudizio.

Movimento ondulatorio sussultorio
Corsi e ricorsi, dicevo prima. Il mio rapporto sentimentale con i vini a base Nebbiolo non è mai stato tranquillo, alternando momenti di sereno a temporali burrascosi, perfino all’oblio. Da qualche tempo, però, mi capita sempre più raramente di andare in cantina e uscirne fuori con una bottiglia di Nebbiolo. Sfogliando l’album delle etichette ho però capito che si è trattato un rapporto vero, profondo, e che alcuni di questi vini hanno avuto un peso determinante nella mia evoluzione.

Barbaresco Santo Stefano 1982 Giacosa

Barbaresco Sorì Tildin 1985 Gaja

Barolo Gran Bussia 1982 riserva Aldo Conterno

A questi vini dovrei aggiungere, e forse proprio come primo della lista, il Barolo Collina Rionda 1982 Giacosa, la cui bottiglia vuota troneggia sullo scaffale in  cucina. E’ stato sufficiente uno sguardo alle etichette per ricordare più chiaramente quei  vini meravigliosi, assoluti, pietre miliari della grandezza del vino italico. Mi sono quindi chiesto il perché di questi alti e bassi nel gradimento del Nebbiolo, e sono arrivato alla conclusione che il motivo era riconducibile al fatto che i Nebbiolo mi hanno quasi sempre dato del LEI, mantenendo le distanze senza concedersi completamente.

Ne ho trovato conferma nel recente passato.

Scena. Serata conviviale allo Château de Chorey Les Beaune, per far conoscere il vino italiano a produttori e affini del luogo. Non ne ho testimonianza documentale, perché le bottiglie ancora oggi sono in bella mostra su uno scaffale della sala da pranzo del castello. Non potevamo non portare anche alcuni Nebbiolo e giunse quindi il momento di bere questi tre vini: Barolo Monfortino 2001 Giacomo Conterno, Barolo Monprivato 2001 Giuseppe Mascarello, Gattinara Osso San Grato 1999 Antoniolo. “Ma è meraviglioso! Sembra un Borgogna” (ah! la grandeur francese…)  oppure “dove si trova questa vigna, devo andare assolutamente a vederla”, e ancora “vino di complessità aromatica pazzesca, non avevo idea che in Italia si facessero vini così”. Avevano gradito, era evidente, ma quei vini avevano colpito anche me.

A ripensarci oggi il motivo è più chiaro: tutti e tre, ciascuno a modo suo,  mi avevano dato del TU, si erano concessi senza riserve, mi avevano preso per mano e mi avevano portato a correre a piedi nudi per i prati odorosi di quei luoghi. E poiché ricordo chiama ricordo, per affinità mi sono ricordato di vini come il Barolo Monprivato 1989 e 1996, alcuni vecchi o vecchissimi Monfortino, alcuni altri vini dell’Alto Piemonte.

Si tratta delle classiche eccezioni che confermano la regola?  O forse, nell’incessabile rincorrersi dei corsi e ricorsi storici?

Vini che non bevo più, perché purtroppo non esistono più
Fiorano Semillon 1971 e 1975.  La storia della Tenuta di Fiorano del Principe Ludovisi Boncompagni è nota a qualsiasi appassionato. Sarebbe bello pensare all’araba fenice, sperando che non di mitologia si tratti ma della realtà dei fatti, ma nutro qualche dubbio. Il Semillon è sempre stato il mio preferito dei tre vini  che venivano prodotti e che ho bevuto in lungo e in largo negli anni ‘80. Poi l’oblio, fino a pochi anni fa, quando l’amico alterato Armando Castagno mi ha fatto nuovamente bere alcune vecchie annate del Semillon (a dirla tutta, anche qualche Fiorano rosso dal tappo improbabile ma dal contenuto eccellente).  In cucina svetta oggi una bottiglia del 1975, strappata  agli altri che l’avevano bevuta con me, splendido esempio di una viticoltura colta, nobile e romantica. Ma è impossibile non ricordare il 1971, bevuta nello stesso periodo,  probabilmente il più grande vino bianco italiano che mi sia mai capitato di bere. Inutili gli aggettivi per descrivere le sensazioni donate da quel vino, mi limito a dire che l’integrità e la freschezza erano inimmaginabili per un vino bianco di quaranta anni. Un vino che ha ridisegnato i confini dei limiti umani.

Vini che non bevevo più e che invece…
…eccoli di nuovo (tranquilli, non parlerò di Shel Shapiro). Negli anni delle mie prime bevute i soldi in tasca erano pochi. Andavo spesso in Liguria, Riviera Ligure di Ponente, e nelle trattorie che frequentavo bevevo sempre lo sfuso della casa, rigorosamente Rossese di Dolceacqua, fresco di cantina. Con i primi soldi arrivarono i primi vini in bottiglia e lo sfuso scomparve all’orizzonte. Dopo oltre venti anni il Rossese ricompare grazie ai consigli di qualche amico; un altro periodo in stand-by, poi una prima gita galeotta a Dolceacqua, la conoscenza di Filippo, Giovanna, Maurizio, Nino, Roberto (in ordine strettamente alfabetico, e ne dimentico altri), ancora una volta i consigli e le opportunità offerte dagli amici Armando Castagno e Giampiero Pulcini e…..il gioco è fatto.

Negli ultimi anni la letteratura sul vino ha probabilmente sovraesposto il Rossese di Dolceacqua, con il risultano anche di scatenare diversi pasdaran, strenui difensori delle gerarchie acquisite, che hanno preso a spernacchiare chiunque osasse valutare in termini entusiastici alcuni vecchi Rossese. Sono convinto che per i produttori di Dolceacqua il difficile venga ora, costretti come saranno, per tale sovraesposizione, a non sbagliare un colpo. Evito di gettarmi nella mischia e mi limito ad alcune brevi considerazioni.

Dolceacqua è un luogo incantato, come hanno saputo descrivere mirabilmente Francesco Biamonti e Ennio Morlotti, e i produttori che ho conosciuto sono belle persone, con una passione autentica per il luoghi, la storia, le tradizioni,  la loro attività di vignaioli, e con un raro senso dell’ospitalità. Al di là dei vini, quindi, non credo possa essere smentito da nessuno (tranne quelli, ovviamente, che non ci sono mai stati) il fatto che è difficile trovare in altri luoghi quella alchimia di paesaggi, atmosfere e persone. Ciò detto, mi è capitato di bere giovani e vecchi Rossese di Dolceacqua meritevoli di entusiastica segnalazione. Un caro amico, che forse più di altri è riuscito a penetrare l’essenza di questi vini, li descrive come “ellittici”, un insieme di contrasti e di vuoti.

Ometto di parlare delle annate più recenti, o dei produttori ancora in attività, e focalizzo il discorso su un vino che non c’è più (è una fissazione, me ne rendo conto, ma che volete fare….sopportatemi). Rossese di Dolceacqua Vigneto Curli 1979 e 1982 Croesi. Non l’avrei detto per non sentirmi dire per l’ennesima volta che la Borgogna è per me una fissazione, ma fu proprio Gino Veronelli a dire che il vigneto Curli era la Romanée Conti italiana, quindi lo dico: il 1979 non ha nulla da invidiare a una grande versione di Romanée St. Vivant e il 1982 a una altrettanto grande versione di Richebourg. Ma, ed è forse questo che rende davvero grandi nella loro unicità questi vini, si colgono i profumi e i colori delle colline e del mare di Dolceacqua. Giovanna Maccario si è assunta un compito arduo ed entusiasmante allo stesso tempo, ne riparleremo, da parte mia aspetto con ansia di provare il Curli 2012.

Ora spernacchiatemi senza problemi, non cambio idea.
[segue]

5 commenti to “Amarcord – prima parte”

  1. nei tuoi scritti c’è sempre qualcosa che rubo con immenso piacere, e ciò è determinante per la mia crescita culturale enoica

  2. Bel testo, e carico di poesia. Ma leggendo la prima parte (la seconda è altra cosa) mi viene spontanea una domanda; il vino va bevuto o adorato?

  3. Adoruto. O bevato.

  4. Bevuto e ricordato, è più facile

  5. Giancarlo, grazie.

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