di Raffaella Guidi Federzoni
I russi, i russi, gli americani… ora anche i cinesi ed i brasiliani. Son qui che ci penso, dopo una giornata passata dietro al solito banchetto. Un bicchiere dopo l’altro, versare e parlare, in inglese, in francese, infilando quelle due parole di russo che conosco. Insieme a me tanti altri produttori. Io ho già un importatore, che mi fa girare le scatole, che dopo tante parole ci mette un secolo a mandare un ordine, che sono venuta qui a bacchettare e a ricordargli l’esistenza del mio vino nel suo vasto catalogo.
Altri sono venuti sperando di trovarlo, l’importatore, hanno lasciato vigna e cantina, speso soldi senza la certezza che torneranno indietro con uno straccio di contratto. Accade in Russia, ma negli USA, in Cina, in Brasile, non è diverso. Il vino è il nostro mestiere, ci deve far mangiare, nutrire il corpo, non solo l’anima. I tempi sono grami, la competizione altissima, l’offerta supera la domanda.
Non è però solo questo che mi impedisce di dormire. Le difficoltà del “mercato” – lo scrivo fra virgolette per superare la censura dei duri e puri che considerano la parola qualcosa di sporco – le conosco da un pezzo. Finiti ormai da più di un decennio i tempi delle vacche grasse, ci siamo attrezzati anche mentalmente per sopravvivere ed andare avanti.
Ciò che mi turba sono due considerazioni amare.
La prima riguarda i pilloloni di saggezza buttati là da uno dei soliti soloni. Come fare il vino per venderlo, cambiando lo stile a seconda delle mode, un anno va il frutto e il dolce, la stagione successiva siamo sull’acido e il minerale. Buttarsi sul mercato cinese, ma in fondo anche la Mongolia è un paese emergente.
Imparare le lingue, anche se stai in cantina la maggior parte del tempo e ti si chiede di non mandare a puttane quel che c’è nelle botti, devi pur almeno pronunciare “My wine is beautiful, wanna buy it?” La comunicazione in questi tempi così virtuali e per niente virtuosi va talmente veloce che non si fa pari a stargli dietro. Più leggo e più m’intristisco, nel vedere come una certa visione sbandierata per definitiva e sostanziale sia in realtà così lontana dalla vita e dal lavoro di tutti i giorni.
La seconda considerazione è ancora più amara, perché non ha risposta. Penso a tutti coloro che si dannano a produrre un vino onestamente, non importa in quale categoria esso venga incasellato, convenzionale, naturale, bio, libero. La scelta di vita che sta dietro a tante bottiglie è anche una scelta etica. A volte ereditata, a volte cercata. Davvero, la stragrande maggioranza di chi conosco in questo mondo, è composta da persone per bene. Penso a tutti le battaglie mediatiche riguardo alla trasparenza ai diritti del consumatore finale. Penso alle due autobiografie che ho letto recentemente. Due giovani che hanno investito esistenzialmente per vivere e produrre in un certo modo. Penso a tutti i blog e forum che seguo e a tutti i milioni di parole spese pro o contro.
Penso alle belle bottiglie che rappresentano tutto questo, ambasciatrici di fatica e onestà. E poi penso a quel grasso suino in veste umana, che con una mano brandisce il bicchiere colmo e con l’altra accarezza il fondoschiena della signorina anoressica che gli sta accanto.
Lo so, sono una bacchettona moralista, ma a volte è deprimente realizzare che tutto quello di tuo che metti nel vino, verrò sgargarozzato da qualcuno che se ne serve solo per imbenzinare il proprio ego e anche qualcos’altro.
* Il titolo e l’incipit li ho rubati a Lucio Dalla. Mi auguro che la Siae non se ne abbia a male.