di Armando Castagno
In questo mondo è importante
non avere l’aria di ciò che si è.
André Gide
– E quindi, mi spieghi bene questo concetto dell’armonia di un vino secondo il manuale Ais. Con calma, però, non come prima. Cominciamo con il concetto base: come viene definita sul manuale l’armonia di un vino?
– Allora, jamm’: l’armonia si definisce come quella caratteristica propria dei vini in cui la fase visiva, olfattiva e gustativa sono (e scandisce) u-gu-a-li.
– E ci risiamo, ok. Io però le ho detto di precisare meglio. Uguali in che senso? Ovviamente lei intende “uguali e molto positivi”, giusto? Giusto? (e faccio gesti come a invitarla a confermare)
– Ma assolutissimamente no, chelli proprio uguali devono essere. Come è la fase visiva, così quella olfattiva e così quella gustativa; sul manuale c’è scritto proprio così.
– Senta, abbia pazienza, ragioniamo insieme. Ponga il caso di un bel calice di cristallo pieno però di acqua di pozzanghera. Se il suo ragionamento fosse valido, noi avremmo un profilo ingannevole, perché l’acqua di pozzanghera ha una piena coerenza organolettica: un colore respingente, un odore tremendo e un sapore che non vorrei nemmeno immaginare. Cosa diremo allora? Che è “armonica”?
– Assolutissimamente sì.
– Sì, eh?
– Sì. Chell’è ‘a armunia r’aa schifezza.
– Va bene, abbiamo finito. Non si aspetti un gran voto, ma visto che allo scritto è andata decentemente e in degustazione tutto sommato era abbastanza sciolta direi che posso considerare superato l’esame, signora… signora… (leggo il “giallone”, il foglione riassuntivo della carriera didattica della candidata) signora Maddalena Scaglione.
– Può chiamarmi Madda, sa?
– Preferisco chiamarla signora, se non le spiace.
– (voce biancoflautata) Sono signorina.
E così rieccomi qui a fare esami. La mia seconda sessione da relatore AIS, meno emozione della prima volta, mi pare di essere più sciolto e mi accorgo anche di sentirmi più buono e comprensivo. Finora, e saranno le undici e mezza, tutti promossi, chi con qualche inciampo, chi più speditamente, ma tutti coloro che ho interrogato avevano studiato e meritato il diploma e il tastevin. Finora.
Il ligio assistente mi conduce un tizio di età matura, sui 55 anni, acconciato in maniera bislacca: porta pantaloni grigi, stiratissimi ma drammaticamente corti, sotto i quali si notano i calzini bianchi, e nonostante il freddo si presenta in camicia, araldicamente fregiata da due straccali rossi. Rimuovo il pensiero che l’ultima persona che avevo visto vestita così era il clown-mimo Tata di Ovada al Circo Medrano, e accolgo il candidato avvedendomi che una delle due lenti degli spessi occhiali che porta è sbarrata in diagonale da una crepa.
L’aria goffa, come spesso accade, nasconde un uomo timido e mite, che dell’argomento sul quale viene a riferire non sa praticamente niente; fornisce risposte insensate parlando oltretutto molto lentamente e dopo lunghissima riflessione; cioè a dire, tra la fine della mia domanda e l’inizio della risposta, che sono costretto ad attendere immobile e in silenzio, passa un giro di lancetta sano, e forse più; del che si accorge il collega Giovanni Lai, il quale inizia da lontano ridendo a farmi il gesto di bere un caffè tra la mia richiesta e la risposta di Tata di Ovada.
Anche qui, l’ultima domanda dirime tra “promosso” o “bocciato. Opto per la bontà: tra sei settimane è Natale.
– Vediamo se almeno sul Barolo mi sa dire qualcosa.
– Cosa?
– Come cosa? Qualcosa. Qualcosa sul Barolo, quello che vuole, mi faccia un quadro così come ritiene, come se insegnasse a dei suoi allievi. Coraggio, che non è una domanda difficile per un sommelier italiano. Il Barolo, via.
– (un minuto di silenzio, poi…) Il Barolo è un vino rosso molto famoso e uno dei vini più grandi del mondo. E’ molto tannico, quindi non va bevuto giovane perché se no allappa. Si produce in molti paesi, tra i quali quello dove era nato Cavour e quello che gli dà il nome. È diverso dal Barbaresco. Un Barolo molto interessante è quello cileno, dove prende il nome di “Chileno Barolo”, con la acca.
– Alt.
– Mi dica.
– Il Barolo cileno cos’è?
– È il Barolo che si produce in Cile.
– Ma sta scherzando?
– No, sta scherzando lei.
– Le sembro in vena di scherzare quando ad un esame da sommelier un candidato tira fuori dal cilindro il Barolo cileno?
– Guardi che esiste.
– Lo ha mai bevuto? Ne ha letto sul libro di testo?
– No ma l’ho trovato, lo vendono online. Ho visto l’etichetta con i miei occhi (stiamo a posto, allora, penso io), è bianca, rettangolare, con la scritta “Chileno Barolo” in lettere nere, leggermente spostata a sinistra. E me la disegna su un foglio, così come descritta. Io mi rendo conto di avere la bocca mezza aperta.
– (mi fissa) Vuole sapere altro? No, me lo dica, vuole sapere altro?
– Ma ascolti, non so di cosa stia parlando, forse si tratta di sofisticazioni, di etichette fraudolente, delle quali tra l’altro io non ho mai sentito parlare, conosco personalmente Alejandro Fernandes della sommellerie cilena, grande appassionato di Barolo, e a questo problema non mi ha mai accennato. Io le ho chiesto di parlarmi del Barolo intendendo il vero Barolo, il vino della Langa di Alba.
– E io le ho fatto un quadro completo.
Alzo gli occhi al cielo; respiro più profondamente che posso. Ma tutti a me? – penso.
– Facciamo una cosa, allora. Io faccio finta di niente e le consegno il diploma, ma lei (e assumo un’aria paterna) mi prometta che approfondirà la questione, e vedrà che si renderà conto che il Barolo cileno non esiste. Ok?
– Arrivederci, grazie.
Si alza, gira i tacchi e scompare.
Non l’ho più visto da allora. Ricordo però che dopo la sua spossante interrogazione, durata almeno un’ora e venti, mi sono lasciato andare sulla sedia e ho chiesto un quarto d’ora di pausa. Ricordo di quando tornai a casa, e raccontai della giornata trascorsa, di qualche risposta buffa, di un paio di soggetti molto dotati in degustazione che avevo trovato e segnalato, oggi entrambi delegati dell’Ais. Ricordo infine che accendendo il pc mi tornò alla mente il Barolo cileno, anzi, il Chileno Barolo, e come mi venne in mente di caricare la pagina di google immagini e scrivere “chileno barolo” nel form in alto.
E di come il tempo improvvisamente rallentasse.
E quindi si arrestasse.
Davanti a me, come primo risultato, c’era l’etichetta del Chileno Barolo, bianca e rettangolare come il clown aveva detto, con lettere nere sulla sinistra, veramente elegante, come si addice a un Barolo.
Sussurrai una lentissima parolaccia e iniziai a ripeterla in loop scuotendo ritmicamente la testa mentre portavo il cursore sulla foto per ingrandirla.
Ora le lettere erano più leggibili, e di scritte ne comparivano altre, in alto a destra e in basso a destra, subito dopo il nome del vino; e c’era una riga intera scritta in calce.
Più che un’etichetta, aveva l’aria di essere un foglio scritto, un foglio di libro.
Più che un foglio di libro, aveva l’aria di essere una sorta di certificato di nascita.
Più che un certificato di nascita, aveva l’aria di essere un pedigree di un animale.
Più che avere l’aria di essere un pedigree di un animale, ERA un pedigree di un animale.
Era il pedigree di un LAMA, quello che sputa.
Di uno stallone LAMA.
Di uno stallone LAMA dal pelo bianco pezzato marrone; il nome di questo quadrupede sputante atto alla riproduzione era CHILENO BAROLO.
Lessi. “Chileno Barolo, lama maschio, intero, nato nel 1997 nell’Halligan Ranch di Redmond, Oregon, figlio di Bolero (sic) e Chilena Glen Fiona”.
Fissai lo schermo con la faccia vuota come un personaggio di Magritte.
Dalla cucina, una voce. “Armando, è quasi pronto… che beviamo stasera?”
Indugio per un minuto pieno anche io, finalmente, e sogghigno voltando leggermente la testa e sfregandomi le mani.
– “Un Barolo?”