Aquila 88

vecchio taxi italico

di Armando Castagno

Milano è una metropoli col coprifuoco, almeno per mangiare. Uno pensa che in una città così ci si possa ingorgare nel traffico alle tre di mattina, che sia festa perenne, un sabba di cassoeule e cotolètte, ma non è esattamente così: già alle dieci e mezza per almeno otto mesi all’anno Milano è una città di incroci impresenziati, semafori lampeggianti, di riflessi dei lampioni sulle rotaie e sull’asfalto bagnato, di umidità e pioggerellina quando non nevischio, quel piovasco ghiacciato che ti punge la faccia, il peggiore, qualcosa da cui potresti ripararti solo andando in giro dentro uno scafandro.

C’è poca gente in giro e occasionale, gruppetti di ragazzi soprattutto, coppie di personaggi che rincasano sottobraccio o raminghi misteriosi.
A Milano è veramente dura trovare un ristorante decente con la cucina ancora aperta quando io finisco di lavorare, cioè alle 23. Non ho fatto meno di quindici telefonate oggi, fors’anche venti; sono finite tutte con un “va bene, allora ci vedremo a pranzo un giorno di questi, di certo, arrivederci”. E una volta riattaccato, sigillo il tutto sussurrando tra me e me: “e come no?”.

A un certo punto ne ho trovato uno, molto lontano da dove lavoro ma almeno aperto fino a tardi; è un ristorante “di pesce”, se ho ben capito assai à la page, in cui dopo mezzanotte fanno cauto ingresso calciatori con veline, calciatori senza veline, veline senza calciatori, o perfetti sconosciuti. Mi ci trovo ottimamente per tre motivi: 1) si mangia bene, 2) sono gentili, 3) quel che più conta, mi aspettano sempre e non fanno domande quando chiedo un tavolo “appartato se possibile”. Oggi ho finito più tardi del solito di mangiare, è l’una passata e restiamo io, un giocatore del Milan che presi a fantacalcio a inizio stagione tre anni fa e mi fece solo panchina dura, e una velina d’ordinanza alta sei metri e venti, al calciatore accompagnata, che ha la faccia da stronzetta, parla come una stronzetta, gesticola come una stronzetta, ma non mi faccio ingannare, è certissimamente una stronzetta.

 

Pago il conto e chiedo alla cortese cassiera di chiamarmi un taxi. Una buona cena, un interessante Chablis Village di produttore di nicchia terminato da solo in formato “mezzina” – e ci mancherebbe pure che non lo finissi – e insomma tutto sembrerebbe tranquillo. Una serata di routine. Ora taxi, albergo, sonno plumbeo da fare una faglia in mezzo al letto, domani sveglia, colazione e treno per Roma.
La gentile signora della cassa mi rende la carta di credito e riaggancia il portatile. “Arriva il taxi, signore: AQUILA 88 in 6 minuti”.
Aquila 88 in sei minuti, ha detto. Aquila 88. Aquila. Ottantotto. In sei minuti. Bene. Male. Malissimo.
“Qualcosa non va, signore?”
“No, è che… Aquila 88, ha detto”.

“Aquila 88 in sei minuti. Anzi, forse già in cinque” – e prorompe in una risata stridula. Si accorge subito che io NON RIDO.
NON RIDO AFFATTO.

“Lei conosce già questa sigla, signora? Cioè conosce il tassista?”

“No, perchè? E’ una sigla come un’altra, no? Son le città, mi pare, Aquila, Monza, Trento”

“No.” – commento io.

“No?”
“Temo che lei mi abbia chiamato un tassista neonazista. Un eversivo”.

“Cos’è che dice?”
Non le bado, non ha capito niente. Aquila Ottantotto. Rifletto che mancano quattro minuti, poi dovrò montare nel taxi pilotato da un probabile spostato, un possibile criminale, uno sprangatore, un naziskin di quelli duri. Fuori ha ripreso a piovere. I lampioni gialli si specchiano sul selciato della strada dove sto per fare qualcosa di molto pericoloso. Il mio cellulare, per colmo di sventura, ha finito la batteria; se avrò bisogno di aiuto, non saprò come chiederlo

“Signora, Aquila 88”.

“Aquila 88 in tre minuti” – ripete la signora con il corpo immobile, gli occhi sbarrati, la bocca che sola si muove per pronunciare quelle parole.

“Aquila. Il simbolo nazista per eccellenza. La Reichsadler, ha presente?”

“No”.

“E’ lo stemma della Germania da sempre, l’emblema di Prussia, del Sacro Romano Impero, del Primo, del Secondo e del Terzo Reich. I neonazisti di tutto il mondo ce l’hanno tatuata addosso. E a Milano i circoli neonazisti si conoscono. E’ gente cattiva. Sa le teste rasate, “Lealtà e Azione”, i nostalgici delle SS, il Totenkopf, il pugno bianco, le rune celtiche?”

“O Dio, ste robe qui?”
“Sì, signora. Ma sa, fosse solo Aquila… in fondo è il capoluogo dell’Abruzzo”

“Eh già… e invece?”

“Invece OTTANTOTTO”

“Ottantotto?”

“OTTANTOTTO” – le bofonchio io con aria rapace.

“Non capisco mica”
“Ottantotto. E come si scrive ottantotto? OTTO – OTTO. Cioè ACCA – ACCA”.

“Eh?”

“ACCA – ACCA. La lettera. E’ l’ottava lettera dell’alfabeto. Dopo la EFFE e la GI viene la ACCA. Mi segue?”

“No ma mi fa paura”

“Ecco. Perché ACCA – ACCA significa mica Helenio Herrera, sa?”

“Ah no? E che significa?”
“HEIL HITLER”

Si fa, giuro a Dio, il segno della croce.

“Addirittura” proseguo “anni fa a Buffon, sa il portiere? Venne in mente di chiedere la maglia numero 88 e giù polemiche, accuse di neonazismo, proteste. Dovette cambiare numero; perché lo sanno TUTTI (e scandisco le lettere della parola T U T T I) che 88, cioè HH, è un messaggio in codice di stampo neonazista.”

“E quindi?” – quasi trema: mi fissa; potrei dire qualunque cosa, e se facessi “bu!” morrebbe qui di colpo apoplettico; nel ristorante non c’è più nessuno, nemmeno la velina e il disgraziato centrocampista di contenimento. “E quindi?”
Colpo di clacson fuori dal ristorante.

Faccio per uscire. So già che mi attenderà un viaggio di venti minuti con la musica satanica a tutto volume dallo stereo del taxi. Sono pronto a gettarmi fuori dalla portiera al primo accenno di deviazione dall’itinerario per il mio albergo, che è quello e non può essere che quello.
Saluto la signora e un cameriere con il tono di chi va al patibolo, o alla guerra con i Filistei.
Esco nella pioggia e vedo il taxi che ha superato di una ventina di metri la porta del ristorante.
Entro dalla portiera posteriore destra rigido come un manichino di granito.
L’autista si gira verso di me.
Lo guardo.
Mi guarda.
Aquila 88.
Il neonazista.

Il serial killer.
La testa rasata assetata di sangue.
La belva dai tatuaggi di teschio.
Aquila 88.

Trattasi di un vecchietto con un naso enorme e rosso porpora, occhiali smisurati di osso, sguardo buono e completamente perso; guida con la coppola in testa una Ford di almeno vent’anni, settecentomila chilometri e due motori se non tre. In mezzo al cruscotto c’è effettivamente un medaglione attaccato, ma non è quello effigiante Hermann Goering che mi aspettavo io, bensì il profilo in silver di Padre Pio da Pietrelcina.
Prendo un respiro infinito ed espiro con forza.

“Dove andiamo?” – mi fa.

“Westin Palace, piazza della Repubblica”.

Il tassametro segna già oltre 7 euro, ma va bene così. Partiamo nella notte milanese, in un tempo umidissimo e scandito dalle monotone scarrellate dei tergicristalli d’antan. Immagino che se fosse un film diretto da me inquadrerei le sue mani che di soppiatto fanno scattare lo scomparto dell’accendisigari rivelandoci dentro un coltello a serramanico con svastica e teschio con cui sventrarmi, farmi a pezzi e farmi ritrovare a Capodanno entro una valigia Carpisa verde mela con lucchetto e combinazione. Poi però gli guardo le orecchie grandi come braciole, lo vedo che tira su il bavero e mi mugugna qualcosa in milanese stretto credo sul clima, e – direi che è il caso – mi rilasso sullo schienale. Oltretutto fuori ha smesso di piovere, mi sembra. Vai, Reichsadler. Vai, Aquila della notte. Mangiati Milano e portami a dormire, che crollo di sonno.

2 commenti to “Aquila 88”

  1. Applausi a scena aperta!!
    …e naturalmente salteremo l’88 nella verticale…

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