Le ceneri di Beckman. Un risarcimento

Beckman vista camera

di Armando Castagno

Uno degli artisti che più ho amato, e uno degli uomini dell’arte che più avrei voluto conoscere, è morto il 19 novembre 2014 a 62 anni e io l’ho saputo oggi, oltre un anno dopo. Il modo in cui l’ho saputo non mi è piaciuto: come in una allucinazione, il mio sguardo ha percorso in orizzontale, avanti e indietro più volte, la riga intera del suo nome sul sito della galleria che aveva raccolto i suoi quadri recenti: Ford Beckman, american, 1952-2014.

Si era, del resto, nascosto dal mondo: viveva a Tulsa da diversi anni, dopo una parabola inconcepibile. Nato a Columbus, Ohio da genitori – lei dipingeva cani e gatti, lui lavorava in radio e aveva fatto il clown – separatisi quando lui aveva 11 mesi, aveva compito studi universitari brillanti e aveva aperto a vent’anni un piccolo negozio di abbigliamento maschile, in cui tutto, compresi i vestiti ovviamente, era disegnato da lui: il negozio aveva il suo soprannome di bambino, Clancy’s.

Ford Beckman a Villa Panza

L’intrapresa conobbe una fortuna veloce e clamorosa: in breve Ford si era trasferito armi e bagagli nella piazza più bella della città e nel 1980 era sbarcato a New York, sotto l’ala protettrice dello stesso affarista che aveva scoperto Ralph Lauren, e per la sua griffe Beckman divenne il designer più importante; tessuti disegnati da lui vennero acquistati da Giorgio Armani, i suoi capi smerciati a caro prezzo da Harrod’s, da Bergdorf, da Macy’s.

La marea di soldi guadagnata finì spesa molto bene: in opere d’arte. Julian Schnabel, Ross Bleckner, Jeff Koons, Keith Haring, la bellezza di sedici quadri di Basquiat e tanti altri grandi maestri finirono in casa di Ford; il quale intanto, dall’inizio degli anni Ottanta, aveva iniziato a dipingere, creando nella pace di casa sua un’arte minimalista e spirituale, intrisa di religiosità. Erano nati così nel suo studio i “Black Wall Paintings”: pannelli giganteschi, privi di decorazione, in cui quadrati dipinti di un nero profondo, e raramente di bianco, stagliavano al centro di incorniciature di legno su cui erano stati passati più di cinquanta strati di cera; l’effetto era straordinario, magnetico.

Proprio in questo periodo visitò lo studio un giorno Giuseppe Panza di Biumo, formidabile collezionista varesino che avrebbe alla fine ammassato la più bella collezione europea di arte americana, e fu proprio Beckman a raccontare come andò. Panza praticamente non disse una parola; stette dai dieci minuti al quarto d’ora in piedi in contemplazione davanti a ciascun quadro, oltre venti colossali opere, e alla fine, dopo varie ore di spettrale silenzio, si piazzò di fronte al pittore e, semplicemente, gli sussurrò “it’s so human”.

FORD BECKMAN Black Painting

Nel giro di pochi anni, l’italiano di poche parole gli acquistò 57 opere, e non è difficile comprendere il perché: di tanti degli artisti che genialmente decise di collezionare quando ancora poco noti – Rauschenberg, Kline, Rothko, Turrell, Irwin, Flavin, Sims – Panza ha scritto nelle sue memorie di aver ammirato la “forza di attrazione” delle rispettive opere. E quelli di Beckman erano, e sono, quadri che sembrano chiamare; un moto ininterrotto di dilatazione e contrazione pare vivificarli, per costringere l’ignaro destinatario a inchiodarci gli occhi, assecondandone la trepidazione. Non c’è altro modo, forse, che utilizzare metafore, figure purissime e geometriche, forme primeve, per scavare nell’interiorità così complessa di ciascuno.

L’intimo si intacca con la concisione, avrà pensato Beckman, lo spirituale si attinge per simboli, colori basici, strutture semplici. In quei quadri si trovano insieme l’assenza, la presenza, il peso, la levità, la vastità, la singolarità, il carisma dei totem, il recupero di linee e materiali arcaici e la messa all’indice della modernità, una sorta di astrazione gestuale; la geometria di questo mondo e la promessa di un altro; la sacralità dell’arte e del suo medium, l’artista; chiunque ci vedrà muoversi dentro i propri fantasmi. Sono opere eccezionali. Una volta visti, i quadri del periodo migliore di Ford Beckman risultano del resto non dimenticabili; alle volte si inabissano nella coscienza, ma periodicamente ne riemergono, è inevitabile, e possono deflagrare nell’emozione se incontrati di nuovo.

Ford Beckman_Pop Targets (2011)

Ne ricordo due, entrambi nella sala di Villa Panza dove c’è un pianoforte, impegnati come in un dialogo: tre enormi pannelli neri che sembrano pulsare uno attaccato all’altro sulla parete lunga come un arcano strumento a percussione, e uno singolo sopra il pianoforte che tiene testa al rumore di tutti e tre, in cui la cornice di legno ha al centro un quadrato bianco, un varco che conduce verso la luce, la vitalità, una eterna pienezza di senso.

Su tutto il resto della vicenda non ho cuore di essere altrettanto prolisso. Le lunghe sessioni di pittura a Gaeta, nello studio di Cy Twombly, a metà degli anni Novanta, e i viaggi a Roma, che immagino nel sole del pomeriggio ospitare il suo ultimo buonumore nonostante quello che era stato; e cioè un drammatico tracollo economico, debiti inaffrontabili, la disabilità dell’unica figlia Isabella e in seguito quella della moglie, la sospensione forzosa dell’attività di pittore, il lavoro a sette dollari l’ora come venditore di ciambelle da Krispy Kreme per non morire, letteralmente, di fame, portando a casa la sera un po’ di pane e una cartata di prosciutto.

E infine: il fallimento della sua seconda carriera d’artista, stimolata dai pochi amici rimasti, con il rifiuto dei suoi quadri da parte più o meno di tutti (e infatti se ne trovano ancora agevolmente), i suoi beni messi all’asta, compresi persino alcuni abiti oltre alle 38 opere residue, e i due infarti, il primo del 2007, salutato come un segno del Signore, il secondo – leggo oggi – violentissimo e definitivo.

Restano poche opere sparse presso mercanti, svalutate in modo deprimente a vagliare le quotazioni di un mercato su cui varrebbe la pena, fosse possibile, di vomitare; restano la sconcertante tristezza dell’intera storia e qualche suo interessante pensiero: “tutti i miei quadri sono alla fin fine degli autoritratti”; “dipingere e pregare sono la stessa cosa, per chiunque, anche per gli atei”; “l’arte è trasferire sull’opera niente altro che se stessi, e quindi non si può insegnare”

Kimberly Grimes, che ha lavorato con lui negli ultimi anni di vita, ne ha parlato al giornalista del “Believer” incaricato di scrivere il “coccodrillo” dell’artista. “Certo che me lo ricordo. Faceva dei dipinti, sì, credo di arte moderna, astratta, o quella roba lì, li ho visti su Internet. Ma posso dirle che con le ciambelle era un mago. Ed era una persona carina, ecco. Una persona carina”.

Crediti fotografici, a partire dall’alto:

1) Ford Beckman, White Painting. A place for prayer, 2002 (courtesy McClain Gallery, Houston, USA)
2) Villa Menafoglio Litta Panza, Varese, Sala del pianoforte
3) Ford Beckman, Black Wall Painting, 1992 (courtesy Christie’s)
4) Ford Beckman, Pop Targets, 2011 (courtesy Maloney Fine Art, Los Angeles, USA)
5) Ford Beckman (c) 2013 Tulsa World, Tulsa, USA

Ford Beckman

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