di Shameless
Mio figlio a sedici anni ci annunciò di essere diventato vegetariano, a sedici anni e tre mesi smise di esserlo perché rischiava l’asocialità. Lo stesso era accaduto a suo padre, vegetariano in Inghilterra, apostata carnivoro in Toscana.
Qui dalle nostre parti mangiare animali deriva dall’imprinting culturale di generazioni signorili e contadine. I signori cacciavano e i contadini allevavano, oppure cacciavano anch’essi di frodo. Nutrirsi di carne per gli uni era la norma, per gli altri l’eccezione. La carne era un lusso ed un pilastro del sistema economico per la sopravvivenza.
Il pilastro più pilastro degli altri era il maiale, animale da cortile, da recinto, da campo.
Passato Natale l’anno nuovo iniziava con la pratica dell’uccisione del maiale, a volte veniva effettuata da professionisti che giravano per i poderi. La “facitura” del maiale poteva durare qualche giorno ed alla fatica sanguinolenta si aggiungeva un’atmosfera festiva in previsione dell’abbondanza saporita che avrebbe rallegrato la tavola nei mesi a venire.
Mi sembra giusto dedicare qualche riga all’umile porco che non ha niente a che vedere con il porcellino rosa dei cartoni animati e dei negozi di peluche. Esiste una deriva pericolosa nei confronti di codesto animale, il quale è senz’altro intelligente e merita una vita dignitosa ed una morte indolore, ma non è un compagno da salotto fedele ed amorevole, riempitivo della nostra solitudine.
Il porco puzza, ama il fango e grufola con poca grazia.
Il porco mangia di tutto, del porco si utilizza tutto.
Il porco non ha bisogno di grandi distese erbose, il porco figlia frequentemente. Il porco cresce in fretta, lo metti in un campicello con qualche quercia sparsa e ti ripulisce il terreno, poi gli metti nel truogolo gli avanzi di cucina e ti fa fuori anche quelli, senza bisogno della raccolta differenziata.
Se levi il porco dall’area nord-mediterranea/sud-europea cancelli una buona parte della storia e della gastro-cultura secolare che ancora in qualche modo ci distingue dal resto del mondo.
Nei piatti nordeuropei si presenta spesso il porco, in versione nature oppure salata e affumicata, ma non c’è paragone riguardo alla varietà maialesca che puoi trovare nei lembi sudisti spagnoli, francesi ed italiani.
A maiali non ci batte nessuno.
L’umiltà del porco viene innalzata a classicità somma ed imperitura quando espressa in fette irregolari di porchetta, adagiate solitarie su carta unta e spessa, o ammassate fra due pezzi di pane robusto e sciapo. Codesto bendidio va mangiato rigorosamente con le mani, in piedi, nettandosi gli angoli della bocca con le dita già untate. Una terapia salvifica contro lo stress quotidiano. Io della porchetta divoro tutto, comincio dalla coccia croccante e finisco con l’ultimo filamento grasso spruzzato di pepe e sale. Poi mi lecco i polpastrelli e spero che in quel momento passi Rhett Butler e mi baci sulle labbra salate e pepate al punto giusto.
Tale è la potenza del maiale nel nostro immaginario da farne l’interprete del libriccino più meta-generazionale del secolo scorso. Scritto dal solito cinico-romantico-fatalista angloide, citato in ogni dove, eleva il maiale a figura negativa e crudele, spietata, egoista e priva di ogni sentimento. Praticamente un uomo.
Lo cito anche io nel titolo, perché così fa più effetto, ma se devo pensare ad un suino letterario penso a qualcosa di più gentile ed innocuo, seppure maestoso. Mi riferisco a l’imperatrice di Blandings, personaggio chiave nella produzione letteraria di P.G. Woodhouse, una maialona da concorso, passione amorosa irrefrenabile di Lord Emsworth.
Altri tempi, altre letture.