di Fabio Rizzari
La più rivelatrice delle confessioni di Gioacchino Rossini conferma quanto l’intreccio tra percezioni sensoriali differenti possa essere inestricabile: “ho pianto tre volte nella mia vita: quando mi fischiarono la prima opera, quando sentii suonare Paganini e quando mi cadde in acqua, durante una gita in barca, un tacchino farcito ai tartufi”. Il luminoso compositore pesarese era infatti un appassionato – di più: un vero monomaniaco – della gastronomia. Un noto critico arriva ad affermare che “Rossini avrebbe potuto diventare un celebre gourmet, se solo il suo genio musicale non avesse eclissato il suo talento gastronomico”. Gli studiosi della sua lunga vita professionale e privata si interrogano sul primato delle sue inclinazioni: per Rossini veniva prima la musica o il piacere della gola? Da semplici ascoltatori, si risponde in modo sbrigativo ma forse azzeccato: venivano insieme. In un mondo sensoriale dove l’arte della combinazione dei suoni stimolava e rimandava continuamente all’arte di combinare ingredienti, spezie, sapori differenti.
Rossini stesso è il migliore testimone di questa interpretazione. Annota: “sto cercando motivi musicali, ma non mi vengono in mente che pasticci, tartufi e cose simili”. Nella biografia rossiniana l’aneddotica gastronomica è sterminata. Goloso al limite della fissazione compulsiva, era capace di infrangere ogni regola della diplomazia se riteneva di aver subìto un torto alimentare. In una lettera di ringraziamento per aver ricevuto dei regali non commestibili, scrive (più o meno: vado a memoria…) con malcelata stizza agli incauti donatori: “grazie per il vostro pensiero, ma dalle vostre parti si produce un bel salamino, la prossima volta mandatemi quello”. Compositore di musica, Rossini era nella stessa misura compositore di cucina, rielaborava ricette e ideava nuovi piatti.
A lui si attribuisce la paternità dei tournedos à la Rossini, dove il fegato grasso sposa il filetto di manzo; e quella di mille altre ricette: insalata alla Rossini, filetto di sogliola alla Rossini, uova alla Rossini, eccetera eccetera. La memoria ammirata di un contemporaneo su una di queste creazioni, i maccheroni alla Rossini, aiuta a capire quanto il Nostro si dedicasse con uguale amore all’invenzione musicale e a quella culinaria: “Fu allora che comparve Rossini, che con la sua delicata mano grassottella scelse una siringa d’argento, la riempì di purée di tartufi e, con pazienza, iniettò in ciascun rotolo di pasta questa salsa incomparabile. Poi, sistemata la pasta in una casseruola come un bambino nella culla, i maccheroni finirono la cottura tra vapori che stordivano. Rossini restò là, immobile, affascinato, sorvegliando il suo piatto favorito e ascoltando il mormorio dei cari maccheroni come se prestasse orecchio alle note armoniose della Divina Commedia.”
Un genio culinario del calibro di Carême scolpisce del resto una dichiarazione definitiva: “Rossini è l’unico che mi abbia davvero capito”.
Il suo amore per il vino non era meno sincero e coltivato. Si dice che da bambino amasse bere il vino della Messa. La sua cantina era fornitissima, delle bottiglie più varie: dai Madera ai Marsala, dal vino di Johannisberg (regalo del Metternich) al Porto (dono del Re del Portogallo, suo grande ammiratore), ai Bordeaux. Le annotazioni sul vino, meno abbondanti nel numero rispetto a quelle dedicate al cibo, mostrano di essere nutrite della stessa passione: “lascerete riposare otto giorni il vino, poscia lo metterete in bottiglie, e che vi sia quasi due dita di distanza tra il turaccio e il vino, essendo questa aria necessaria… Arrivate che saran da Venezia le 4 botti le metterete nella miglior cantina, e la meno umida, e lascerete otto, o dieci giorni in riposo il vino prima di fare l’operazione dietro indicata per metterlo in bottiglie; farete pure attenzione nel metterlo in bottiglie, che al finir della botte vi sono sempre due o tre bottiglie di vino più torbido, queste bisogna prima di metterle definitivamente in bottiglie farle passare per un lambicco di carta senza colla, e così compire l’opera… Vedete, caro Vivazza, che per bere qualche bottiglia di buon vino bisogna spender molti danari, e darsi infinite pene, ed aspettar almeno sei mesi affinché il vino si formi nelle bottiglie…”.
Al barone de Rothschild, che aveva compiuto il grave errore di donargli una cassetta d’uva dei suoi vigneti, indirizza una puntuta replica: “Vi ringrazio Barone, ma poco mi piace il vino in pillole”.
In questa sorta di gioiosa ossessione si può rintracciare facilmente una venatura di malinconia, quando non un più ombroso senso della fragilità, della consistenza sfuggente del piacere sensoriale. Una percezione ovvia in tutti gli umani, forse in tutti i viventi, ma in lui e in altri grandi artisti più intensa e ricca di conseguenze espressive. I detrattori per i quali Rossini è stato “una specie di Mozart senza drammi esistenziali” sono miopi. Opere quali lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle rivelano una profondità insospettabile che fa apparire ridicolo chi lo considera “solo” un brillante e funambolico autore teatrale. Homo bulla, l’uomo è (fragile come) una bolla, ammoniscono certi dipinti antichi. Le bolle degli spumanti, dello Champagne sono una sorta di metafora della condizione umana, “subito apparse, subito sparite (..), in un movimento senza fine dal fondo del bicchiere alla superficie, dove si annullano” (M. Onfray). La festa, la gioia di vivere si fondano su un terreno instabile. Nella sua musica e nella sua passione gastronomica Rossini dimostra di esserne perfettamente consapevole:
“Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di Champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo.”
Articolo apparso nella rubrica “Vino e musica” della rivista Vitae, edita dall’Associazione Italia Sommelier
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