di Raffaella Guidi Federzoni
Esistono misteri della fede di fronte ai quali possiamo solo inginocchiarci e credere, senza cercare spiegazioni puntigliose.
Sto parlando di enologia, non di teologia. Ci sono vini che rimangono un mistero per come nel tempo si sviluppano, crescono oppure muoiono nonostante le previsioni di noi comuni mortali bevitori. Vini che sbocciano come fiori da vendemmie impossibili e vini che stramazzano quasi subito, si appiattiscono inamovibili contrariamente a quanto pronosticato.
Ci sono vini che stanno bene da soli e altri che si reggono solo sulla combinazione di due, tre, quattro varietà.
Personalmente sono monovitignista, ma non disdegno qualche digressione nel plurivitignismo.
Purtroppo però nel secondo caso si rischia di perdersi in decine di piccole sette vinose che portano solo alla dannazione.
Sempre di più mi chiedo a cosa serva combinare per esempio cabernet sauvignon, syrah, merlot e mettiamoci pure un pizzico di petit verdot che male non gli fa, perché spesso il risultato è un vino ben fatto ma anonimo che potrebbe provenire da qui o lì od ogni dove. Un prodotto costruito, sostenuto e banalizzato da affinamenti in contenitori dal legno eccessivo nel cedere elementi vanigliati o affumicati.
Un qualcosa di liquido ed alcolico, basato su di una ricetta di successo consolidata da tempo in altri lidi e per questo considerata universale.
Un vino senza il soffio vitale dato dall’identità di un luogo, un suolo, un essere umano.
Poiché siamo tutti dei San Tommaso e ci piace mettere il dito nella piaga per credere, riporto un episodio recente, esemplare nel rafforzare la mia Summa Oenologica.
Ad una cena in terra scandinava ho avuto modo di assaggiare due vini portati dai rispettivi produttori, due bottiglie sopravvissute alla degustazione pomeridiana dedicata a diffondere il verbo enoico internazionale.
Eravamo tutti stanchi, affamati, ma ancora posseduti da quel desiderio di conoscenza che contraddistingue l’autentico eno-discepolo.
Il primo vino* era composto da 85% Tempranillo, 12% Cabernet Sauvignon, 3% Albillo. La retroetichetta spiegava nel dettaglio queste percentuali, aggiungendo che l’affinamento era avvenuto 20 mesi in barriques di rovere americano di uno o due anni ed ulteriori 4 mesi in barriques francesi nuove. L’annata era la migliore degli ultimi anni, 2010.
Il risultato di tutta questa aritmetica precisa e puntigliosa era qualcosa di ben confezionato ma eccessivamente carico, kitsch, imperscrutabile al naso e deludente in bocca. Troppi fianchi e gambe corte. Forse è quel 3% di Albillo che penalizza lo slancio… Scherzo, neh! Figurati che ne so io dell’Albillo.
Il secondo vino** era 100% Nebbiolo, proveniente da una particella nobile di un vigneto nobile all’interno di una denominazione nobile. Sull’etichetta nessuna precisazione sul tempo di affinamento ed il tipo di legno utilizzato. Almeno mi sembra, in verità non me ne sono preoccupata. L’annata era la più sfigata degli ultimi anni, 2014.
Dopo il primo sorso, anzi, dopo la prima sniffata, non ci sono più stata per nessuno. Mi sono immersa con stupore e decadenza nel caleidoscopico e delicato arcobaleno di profumi e aromi che spaziavano dalla rosa canina al gelso, passando per i frutti di bosco del gelataio artigianale sotto casa. In bocca una carezza serica e decisa con un leggerissimo accenno di pepe bianco, un sorso appagante e fresco sostenuto da tannini importanti ma per niente invadenti.
Il primo vino strisciava su zampette traballanti, il secondo volava con ali distese e sicure.
Tutto quanto sopra descritto non è una prova definitiva del mio credo, solo una condivisione di un’esperienza. La strada per la conoscenza del vino e dei suoi misteri è lunga, lastricata di buone intenzioni, quelle nostre di bevitori e quelle dei produttori. Quel che conta è continuare a percorrerla evitando pericolose deviazioni.
- Dehesa de los Canonigos – Ribera del Duero – Solideo 2014
** Albino Rocca – Barbaresco Ovello 2014 (mi piace vincere facile, lo so)