di Shameless
Se del condominio mondiale l’Africa Nera è il sottoscala, il Brasile ne è il cortile.
Qualche goccia di pioggia si adagia su gruppi di ragazzi bruni che corrono intorno ad un pallone. Lo fanno concentrati sul presente, senza alcuna preoccupazione per il futuro.
A Salvador de Bahia è inverno, il mare è robusto, scuro, con onde lunghe che invitano a stare alla larga. Dopo le onde c’è la spiaggia cremosa, lunghissima e semideserta, calpestata da qualche femmina indolente e grassa a passeggio con un bambino ed un cane. Dopo la spiaggia ci sono campi di basquete* recintati, uno dieci, venti e forse più. All’interno solo adolescenti che giocano a futebol , indifferenti ai canestri tristi che li guardano come spettatori di terza classe. Giocano indossando magliette multicolori, calzoncini che il colore l’hanno perso da tempo, scarpe usurate. Giocano in un cortile dai grandi spazi.
Quelli più grandi andranno a bere presto in qualche café, mettendosi poi per strada a guardare i turisti che passano con gli occhi in su verso le facciate nobili e scrostate di palazzi disegnati contro un cielo che possiede quel tocco di azzurro immancabile anche in inverno. Berranno birra nazionale e qualche liquore infame e potente.
Nel frattempo altri turisti saranno entrati in una chiesa ridondante, coperta dall’oro polveroso delle periferie del mondo. Polvere dorata, adagiata sulle vesti stuccate di qualche santo dal viso bruno. Lo stesso viso con gli occhi affamati del ragazzo che ha appena segnato un goal e alza le braccia vittorioso. Nella piazza accanto alla chiesa un uomo dal profilo innamorante alza anche lui le braccia e dà il via ad un frenetico tambureggiare compiuto con fòga ipnotica da una dozzina di allievi devoti.
Il palazzo del potere accoglie una nuova onda di turisti in quello che una volta era un convento di suore misericordiose, poi si è evoluto come luogo di commerci ed intrighi. Il tavolo lungo della sala principale si allunga fino alle finestre che incorniciano le petroliere distanti, un nugolo minaccioso di mosconi sull’acqua.
Questi scarafaggi neri delimitano il cortile e lo imbarbariscono, ma intanto i ragazzi continuano a giocare, mentre le mamme si affaccendano a spolverare le migliaia di mattonelle bianche e azzurre che formano azulejos narranti avventure lontane di condottieri e santi importati dal di là dal mare.
Il cortile si allarga ai lati e diventa una giungla umidissima attraversata da un fiume più grande di un grande mare e più bruno della pelle di chi ci naviga.
Si arriva infine al fresco e alla collina boscosa priva delle casette fittizie accatastate laggiù in città. Da quassù la vista del cortile è neutra, la pelle di chi ci abita chiara e la lingua ancora più incomprensibile.
Così arriva la sera, le ombre lunghe oscurano il cortile, i ragazzi smettono di giocare e rientrano in stanze strette. Durante la notte qualcuno continuerà a cantare con allegria triste e felicità disperante, in un modo che appartiene solo alle voci di qui.
La mamma seduta al mio fianco, una donna dal sorriso giallo di spensieratezza e dal corpo rosso di femminilità, dice all’improvviso qualcosa che mi distoglie dal libro aperto sul mio grembo. Un libro scritto da chi ha il senso rotondo e colorato delle parole e la facoltà di rendere vivi e veritieri il movimento dei fianchi nella penombra, l’odore del fango di strada, o il bruciore dell’alcol in gola. Non c’è scrittore “vecchio mondista” che riesca a reggere l’impatto della prosa realista, magica, onirica, impegnata, leggera, straziante di chi si è nutrito del latte “nuovo mondista”.
La mamma alla mia sinistra si volta dunque verso di me ridendo attraverso denti bianchissimi e pronuncia la sentenza definitiva, a chiusura di un viaggio sfiancante:
“Sono nata qui, lavoro qui, ma non voglio morire qui.”
- Basket