di Raffaella Guidi Federzoni
The Beginning
Dopo tre anni che sono sembrati tre secoli, sono partita per Verona con ansia particolare. Cercavo in qualche anfratto l’adrenalina che sempre si era manifestata imperiosa durante le puntate precedenti, faticando a trovarla.
Alla fine, è apparsa, appena in tempo. Terminando di guardare i miei più giovani colleghi impegnati nell’allestimento dello stand – a causa dell’età ora mi viene risparmiato gran parte del lavoro fisico – insieme ai soliti odori di falegnameria, alle bestemmie in vari dialetti, allo straaapppp dei vari nastri adesivi, alla voce della solita signorina che invitava a lasciare la Fiera insieme ai propri veicoli “altrimenti la vettura sarà rimossa a mezzo carri attrezzi”, è arrivata la frustata di eccitazione che mi ha sempre aiutato a navigare attraverso le acque turbolente nel Vinitaly dal giorno prima al giorno dopo.
La sensazione destabilizzante però è durata tutta la prima giornata e buona parte della seconda; rivedere alcune facce, riprendere a parlare dei propri vini vis à vis e non attraverso un monitor, sembrava irreale. Intorno a me espressioni piuttosto incredule a riguardo “sì, siamo qui, siamo veri e non solo realtà virtuale”.
Per fortuna gli esseri umani sono flessibili, reattivi e spesso imprevedibili.
Quindi, nonostante le difficoltà e lo straniamento, tutto per me è andato bene. La voglia di una normalità almeno apparente ha attraversato un’edizione di Vinitaly che considererei di transizione.
Risparmio l’incauto lettore alterato di considerazioni commerciali, sociologiche e politiche, altri ne hanno già scritto con competenza e assertività; preferisco rendere il senso mio riguardo all’aria annusata, alle vibrazioni avvertite, ai brevi lampi preannuncianti un possibile futuro.
Per farlo senza annoiare indicherò quattro parole, solo quattro, con qualche frangia di dettaglio.
Se tutto ciò non vi basta, e spero che sia così, rivolgetevi ad altri siti diversi e complementari.
Giovinezza
Trentasei mesi di pausa hanno svecchiato l’atmosfera. Sia molti produttori – figli o nipoti o pronipoti -, sia diverse nuove cantine, sia soprattutto una gran percentuale di appassionati e operatori del settore mi sono sembrati ammantati di giovinezza. La loro energia, freschezza, ingenuità si riflettevano in vini per niente scontati, stanchi, ovvi e perfettini.
Per esempio, in nuova etichetta non ancora sul sito di un’azienda da poco entrata nel mainstream sovversivo seguito da giovani, giovanissimi o vecchi babbioni tipo la sottoscritta. Un vino bianco lungo e spigoloso come un adolescente, ancora timido con qualche goffaggine, molto bevibile nonostante le asperità.*
In modo diverso, più polposo, equilibrato ed elegante, ma altrettanto esplosivo in termini di urgenza nel manifestarsi, si è espresso un vino rosso chiantigiano proveniente da una cantina consolidata da tempo e guidata con piglio sicuro da qualcuno che ha qualche anno in meno della vigna di provenienza*.
Assai giovane, anche se guidato nell’espressione da mani sicure e mature, si è concesso cautamente un vino bianco nato da poco; creatura da vigna soleggiata, in possesso di giovinezza grazie a un naso che ricorda il cestino della merenda: banana, pane bianco, mela verde. In bocca si è rivelato fresco, pungente e promettente.*
Fragranza
La pesantezza al naso e in bocca che in passato poteva essere interpretata come importanza e valore di un vino ha per me lasciato spazio a una fragranza consapevole e cercata; increspature floreali al naso e carezze prolungate nel palato.
Alcuni vini possiedono naturalmente questa dote, tipo i due esempi di rosso assaggiati chez il banchetto di un’azienda che ha sempre fatto della delicatezza aromatica un punto di forza della sua produzione, non dimenticando l’importanza di un sorso stratificato che appaga senza strafare. Sorseggiare l’annata più recente di entrambi non ha fatto che confermare come l’anima di un vino alla fine vince su tanta materia ingombrante.*
Poco più in là, mi sono soffermata a gustare due vini bianchi appartenenti a una stessa denominazione, il tipo “base” e quello “abarth”. Tutti e due forniti non solo di una luminosità di colore per niente ovvia nonostante il nome della varietà, anche di una forza espressiva caledoiscopica inebriante; nel primo la fragranza è condita da una balsamicità oleosa intrisa di flora selvatica, nel secondo c’è più presenza di burro appena insaporito da tocchi natalizi di frutta candita. *
Infine, una particolare fragranza mi è stata confermata da due vini rossi isolani, un’esplosione aromatica non certo da calibro 22. Due 500 SW Magnum che hanno sparato la propria cartuccia composita di tutto ciò che fa parte della macchia mediterranea, più spennellature di china, radici, fiori gialli macerati; vini intriganti da bere e facili da apprezzare, nonostante la gradazione alcolica e la stanchezza dell’ultimo giorno di fiera. *
Sale
Ormai sono come una capra di montagna che ha bisogno di sale per continuare a zompettare sopra le impervie cime vinose. La salinità è un marcatore di parecchi vini contemporanei, a volte eccessiva e priva di una controparte materica. Non è questo il caso di un rosso calabrese, umilmente presentato come vino d’ingresso dal suo produttore, gentilissimo nel rispondere al mio immediato “mamma mia che bel sale!”.
Non certo un commento da professionista dell’assaggio, ma egli non si è scomposto “Riducendo la polpa viene fuori il sapore del sale”. Nessun accenno a una cura dimagrante nella fattura, perché la presenza di frutta rossa tonda al punto giusto ha reso il sorso di questo vino succoso e tutt’altro che anoressico. Il naso ci ha messo del suo nel suggerire un soffio caldo e profumato d’estate e di mare Mediterraneo. *
Un altro soffio, più freddo e atlantico, l’ho avvertito mentre col naso sorvolavo un bicchiere mezzo colmo, sotto lo sguardo limpido e innocente di un vignaiolo testardo seppur umile. Il vino che mi aveva appena versato aveva anch’esso qualcosa di innocente e persino limpido nel palato, nonostante all’occhio si presentasse un poco nebbioso. Il sale del mare del Nord unito a sentori freschi di erica, licheni e roccia bagnata, riusciva a insaporire una macedonia di pesca bianca, pera e mandorla. Tutti i miei pregiudizi nei confronti di una tipologia che il più delle volte ho considerato “bibita” e non vino si sono volatilizzati. Questo è un vino fatto e finito, da conoscere e seguire.*
Sorpresa
Infelice è chi non si sorprende più di nulla, dunque su questo fronte sono felicissima perché dopo anni e annorum continuo a sorprendermi. Così è successo anche durante questa edizione di Vinitaly.
Prima sorpresa trovata dietro l’angolo; come origine un poco più a sinistra e più su di dove abito e lavoro e come postazione una ventina di metri dal mio stand fieristico. Onde testosteroniche emanavano a distanza, chiamandomi, impossibile resistere; quindi, come una volpe mi sono introdotta in un gallettaio simpaticissimo. I diversi assaggi proposti mi hanno confermato la serietà e la maturità sia del produttore che della denominazione principale, nata lo stesso anno in cui io iniziai a camminare per la strada vinosa.
Il vino che però mi ha fatto esclamare “O, e chi se lo aspettava!” è stato un rosso il cui stile va oltre i miei rigidi e limitati parametri relativi al vitigno qui utilizzato al cento per cento; cioè presenza importante di sentori pepati, carne rossa, frutta scura. La prima snasata, la seconda, la quarta… la dodicesima mi hanno invece trasportato in un giardino fiorito di boccioli delicati.
Si sono presentati all’appello biancospino, narciso, pratoline, helycriso (ormai infesta ovunque) e un tocco d’incenso a sottolineare un aspetto – oserei dire – spirituale. Il vino era autentico e non mascherato, ma più che corpo possedeva uno spirito espressivo che a memoria avevo ritrovato quasi sempre solo di casa in Borgogna. A riportarmi sulla terra è stato il sorso, meno prorompente di quanto aspettassi dopo la sventagliata di profumi, una bocca sì snella e lunga ma leggermente troppo nuda.*
L’altra sorpresa mi è apparsa inaspettata come a suo tempo l’Isola da cui una produzione recente ha preso ispirazione. Un progetto messo insieme da due famiglie diverse come nazionalità ma accomunate dalla voglia di continuare a investire, più per spirito di avventura che per mero desiderio di denaro.
Conosco molto bene una delle famiglie, un punto di riferimento “classico” forse nell’approccio produttivo, ma contemporaneo nella comunicazione; signori siciliani fino al midollo hanno accolto ben volentieri il vento provenzale portato dai partners, ma lo hanno piegato alla propria identità. Mai avrei pensato che due varietà così “primadonna” potessero integrarsi con grazia e senza fratture. Il risultato è un vino rosato dai profumi delicati di frutta rossa e dalla bocca guizzante e piena, tutto meno che anonimo. Un vino di carattere e personalità che non scomparirà come a suo tempo fece lo scoglio di cui porta il nome.*
A questo punto, prima di concludere soddisfatta, sperando che il lettore non sia stramazzato, desidero però aggiungere un bonus track in forma di vino.
Lo faccio contrariamente ai miei principi deontologici perché per motivi di stile non parlo spesso di casa mia, intesa come l’azienda per cui lavoro; questa volta sono al contrario contenta di farlo, lasciando la political correctness fuori dalla porta.
Mi riferisco a un vino appena nato, pura espressione al cento per cento dell’uva di casa, messo a punto grazie alla testardaggine del suo produttore e alla dedizione di un enologo cantiniere meticoloso e motivato. Figlio di grappoli sani e bellissimi, selezionati rubandoli alla produzione più importante e classica. Cresciuto con cure particolari molto ben descritte altrove ma non qui, perché qui parlo solo del risultato.
Un vino di fragrante giovinezza, sapido e molto fruttato – chicchi d’uva rossa soprattutto – che mi ha sorpreso per il suo essere tanto, ma tanto, naturalmente puro. L’avevo seguito nella sua gestazione, ma la conferma del suo valore l’ho avuta insieme ad altri, degustandolo più volte nella confusione, nella romba, nell’ambiente fieristico così poco favorevole per assaggi veritieri e rilassati. Il suo sorso mi ha riportato all’essenza propulsiva del vino, adorna solo di sé e della sua natura.*
The (not very happy) end
Rientrata a casa contenta, sono stata punita dal Covid, edizione aprile 2022.
* In ordine di apparizione: 1) Aspralama, Cantina Pantaleone. 2) Riecine di Riecine 2020. 3) Unterfeld Chardonnay 2020, Tenuta Kobler 4) Dolceacqua Sette Cammini 2020 e Dolceacqua Luvaira 2020, Maccario Dringerberg. 5) Erbaluce di Caluso Le Chiusure 2020 e Erbaluce di Caluso 13 mesi 2020, Benito Favaro. 6) Tenores 2017 e Dettori Rosso 2016, Tenute Dettori. 7) Calabria IGP Rosso 2019, ‘A Vita. 8) ColFondo Agricolo 2020, Colli Trevigiani IGT, Bele Casel. 9) Syrah Toscana IGT 2019, Michele Satta. 10) Serra Ferdinandea Sicilia DOC rosé 2021. 11) Senza Solfiti IGT 2021, Fattoria dei Barbi.