Dilemmi


di Raffaella Guidi Federzoni

“Vende vino”, così anni fa fu definita dal mio interlocutore una persona che non era presente fisicamente e che necessitava di una connotazione; “vende vino” un’attività dignitosa, ma non nobile come quella di medico, avvocato, architetto, ingegnere, professore, accademico, artista.
Perché Vendere vuol dire sporcarsi le mani con la bestia dubbia chiamata “mercato” e per alcuni enopuristi ciò è sminuente.

Non sono d’accordo, l’esperienza mercantile aiuta a capire il valore del prodotto oltre la qualità oggettiva e a trovare il modo migliore per collocarlo su scaffali di enoteche, o nelle liste di ristoranti, o ancora meglio sulla tavola dei consumatori finali.
Uno degli strumenti necessari per raggiungere l’obiettivo è porsi una domanda apparentemente oziosa, stupida, e persino criptica: “Preferisci che il tuo vino venga comprato o venga venduto?”

Un vignaiolo, un’azienda produttrice, una realtà enoica di grandi dimensioni, sono accomunati dal bisogno di vuotarsi la cantina e risistemare il conto in banca, vogliono che il loro vino venga comprato. Questo è l’inizio, ma poi che succede?
Poi succede che le casse impilate in un pallet*, escono e viaggiano fino a un magazzino. Lì vengono schedate e inserite in un sistema computerizzato. Vicino a loro ci sono altri pallet con altri vini di altri produttori. Non possiamo aspettarci che tutto il lavoro successivo, quello che porterà alla vendita finale venga svolto automaticamente.

Recentemente, di nuovo, mi è capitato di ricevere una mail* in cui il mio partner* commerciale nel mercato più significativo per me, cioè gli Stati Uniti, si è giustificato dei risultati non eccelsi: “abbiamo comprato meno dell’annata XXX perché l’anno scorso abbiamo comprato troppo dell’annata XYZ”.
Male, malissimo. Avrebbe dovuto scrivere “il motivo è che non abbiamo venduto bene quello che abbiamo comprato”, cioè il mio vino.

Una persona ragionevole controlla quello che ha in dispensa e cerca di farlo fuori, traendone un profitto. Sembra così semplice, ma non lo è. I motivi per cui il vino comprato non viene venduto come e quando vorremmo sono molteplici e non è questo il luogo per scriverne.

Vorrei solo significare l’importanza del mio lavoro e di molti altri, nel continuare a bussare porte chiuse, nel sedere su poltrone in una sala riunioni e pazientare. I miei interlocutori commerciali amano mettersi davanti a uno schermo con grafici, tabelle, numeri, sigle spesso incomprensibili. Tutto per giustificare una – chiamiamola così – distrazione. La crisi economica, le elezioni, il cambio, le nuove generazioni astemie, la pandemia, gli argentini, gli spagnoli, i greci, i portoghesi. Tutte scuse.
Finita la riunione preliminare, vado in giro per ore e giorni con esseri umani che come me vendono vino. Se si sa fare il proprio lavoro, il vino si vende, sempre. La qualità c’è, il prezzo è giusto, il racconto accattivante, il momento opportuno. Non bisogna deprimersi di fronte a schermi sempre uguali nella forma, ma insistere, insistere e ancora insistere. Insomma, rompere le palle a chi il vino ce l’ha comprato ma è troppo pigro per adoperarsi nel venderlo.

Confesso che mi chiedo a volte che motivo ci sia di pagare indirettamente qualcuno che si limita a raccogliere ordini, a piazzare liquori o vini massificati e dal prezzo ridicolo, senza calcolare come nel farlo non ci sia profitto per la società che ti paga lo stipendio e il bonus di fine anno sui volumi venduti e non sui guadagni effettivi.

Me lo chiedo e mi rispondo, poi ricomincio a battere i marciapiedi, a bussare porte, a far girare il liquido nei bicchieri di fronte a chi mi dedica tempo.
Perché io, beh, vendo vino.

*Mi scuso con i lettori per l’utilizzo di termini angloidi, in questo caso più facili alla comprensione comune.

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