di Raffaella Guidi Federzoni
Gli americani, si sa, sono un popolo oversize. Basta mangiare in una delle tante catene di ristoranti di livello medio-basso per rendersene conto. Anche nei ristoranti di fascia più alta spesso ti servono delle porzioni che non sfigurerebbero nella dispensa dell’arca di Noè, in grado di sfamare le bestie per tutta la durata del diluvio, per intenderci. Mi sono più volte chiesta che razza di agnelli allevino per servire delle cotolette dello spessore di pneumatici da Gran Premio. Lo stesso dicasi per dei fragoloni gonfiati col botox.
Contenti loro.
Quando si tratta di vino però la loro propensione all’abbondanza e alla grassezza crea non pochi problemi a noi europei venuti a colonizzare commercialmente il Nuovo Mondo.
Per decenni i consumatori da quelle parti si sono abituati a considerare il valore di una bottiglia in base alla concentrazione, alla densità e alla pesantezza del liquido in essa contenuto. Qualcosa fortunatamente sta cambiando, ma è una strada tutta in salita, con numerosi scivoloni verso il basso.
La mia professione di eno-pusher mi porta spesso a questi confronti e siccome il cliente ha sempre ragione devo mantenere il sangue freddo anche nei momenti più difficili. A volte però una congiunzione astrale favorevole, la luna crescente e la capacità di recitare a soggetto insita nel gene italico mi regalano dei bei momenti.
Come è successo recentemente, un episodio da catalogare sotto la voce “I can get satisfaction”.
La scena è ambientata in un salone di albergo dove si svolge la degustazione dei vini di tanti produttori. La maggior parte sono californiani, cileni, argentini, australiani, neozelandesi. Pochi i francesi, nessuno spagnolo. Gli italiani sono in un angolo, simpatici ma presi poco sul serio, come al solito. Non sono gli italiani dei Supertuscan, delle varie declinazioni di -aia o -esco. Sono produttori che rappresentano quella manciata di DOCG su cui i baby boomers made in USA hanno ancora le idee confuse.
Io sono in un angolo dell’angolo, con la schiena cotta dal sole che batte sulla finestrona alle mie spalle e la pancia congelata da un’aria condizionata direttamente in arrivo dalla Groenlandia. I vini li ho assaggiati e sono a posto, a postissimo. Aspetto le mie vittime, pardon, clienti.
Ne arrivano diversi, mi conoscono, conoscono i vini, nessun problema. Due chiacchiere tra la la e il livello delle bottiglie cala con soddisfazione.
Verso la fine arriva Lui, non poteva mancare. Il Clientone importante, quello che compra a volumi di casse su casse, quello che vende mentre gioca a golf con i membri di un circolo esclusivo. L’uomo si è fatto da solo, enologicamente parlando, con il frutto e il legno della Napa Valley. Di italiano beve solo il meglio, che per lui vuol dire vini di prezzo alto, di stile “motosega” nel senso che serve quell’attrezzo per scavare il vino nel bicchiere. Per lui un vino rosso deve essere nero. Ha il palato viziato de una media di sei cubani giornalieri. Lo accompagna una trophy wife con lo sguardo leggermente allucinato.
Insomma, mi trovo in una soap-opera anni Ottanta.
Non so perché si avvicina al mio banchetto, forse il sole scottante alle spalle mi ha creato un aureola tipo Madonna (l’originale, non la versione XX secolo). Quando è vicino abbastanza profferisce con il tono dell’uomo di potere che non chiede, ma esige “Dammi il vino migliore!”
Lui si aspetta il solito inchiostro dai sentori oversize dei Caraibi, dal gusto oversize e lo vuole in un bicchiere oversize. Gli mostro la bottiglia, c’è scritto “Riserva” sull’etichetta, questo lo rassicura. Mentre lo verso sparo a raffica qualche cifra che a un nipotino di Jefferson piace sempre sentire. La parola “Sangiovese” passa inosservata, già è molto che abbia capito “Tuscany”.
Alla visione del colore si insospettisce, ma io ormai sono lanciata sui binari della mignottaggine spinta, Lucrezia Borgia e Niccolò Macchiavelli hanno avuto più di una ragione per esistere.
Verso da bere anche alla Trophy Wife che mi guarda senza vedermi e sorride nervosamente mormorando “non capisco i vini italiani.”
Me ne verso un poco anche io, dopo tutto il cerimoniale di avvinamento. Non ho avuto bisogno di Antonio Albanese per certe perfomance, sono nata enologicamente ben prima.
Così si consuma nel giro di pochi secondi la singolar tenzone fra la Scuola tosco-mediterranea in cui domina l’eleganza, l’astuzia e la serena consapevolezza di fare meglio e da più tempo e il 7° Cavalleggeri armato solo di arroganza e ignoranza dell’avversario.
Little Big Horn si conclude con una frase che azzittisce per circa trenta secondi il pubblico degustante circumvicino.
Poche parole in cui sono racchiusi lo spirito originario dei Pilgrim Fathers, la tromba di Louis Amstrong che suona “When the Saints go marching in” e la disfatta del Proibizionismo:
THIS WINE IS HOLY SHIT!