di Rizzo Fabiari
Per chi non lo conoscesse, Jeremy Clarkson è il più famoso giornalista d’Inghilterra specializzato in automobili. Ha uno spazio regolare sul Times e conduce da anni Top Gear, che a quanto pare è la trasmissione della BBC più seguita in assoluto (250 milioni di spettatori in tutto il mondo). Anche se non siete appassionati di auto, vi consiglio caldamente di vedere una puntata di questa trasmissione (va su Sky, canale 401), o di leggere qualche suo commento in rete.
Poche persone incarnano meglio nella vita reale lo stereotipo dell’anglosassone dall’umorismo tagliente, sulfureo e iconoclasta. Clarkson è il trionfo del politicamente scorretto. Dell’antiretorica, della critica formalmente sleale. Se amate il genere, il divertimento è garantito. Se invece l’umorismo inglese vi annoia, o vi irrita, lasciate perdere; non prima però di aver constatato l’abisso che divide il mondo della critica anglosassone (perché di critici ugualmente liberi e sfrontati in Gran Bretagna ce ne sono parecchi) da quello nostrano.
Ecco qualche esempio, tradotto grossolanamente, giusto per capire non tanto la sottigliezza delle battute (quelle riportate non sono tra le più brillanti), ma il grado di libertà del suo autore: “L’Alfa Romeo ha sempre saputo cosa rende la guida un’esperienza eccitante. Ma non è mai stata capace di costruire un’automobile. Guardate là in fondo allo studio, gli alfisti sono gli ultimi tra il pubblico: per venire qui hanno dovuto fare gli ultimi dieci chilometri a piedi, ma nei primi dieci si sono molto divertiti”; “In Vietnam ho guidato una Jeep russa. Credevo di aver provato l’auto peggiore del mondo, ma mi sbagliavo: questo pickup Ford è stato realizzato con tecnologie in uso tra i minatori dell’800″; “ho deciso che la Mini Clubman è un’auto pessima. È desiderabile più o meno come un mucchio di letame”.
Incredibile, no? Ogni volta rimango sbalordito, pensando che nessuno in Inghilterra si sogna di protestare, né tantomeno di fargli causa. Non conosco la legislazione inglese in materia di critica giornalistica. Da noi, per legge, si è liberi di esercitare il diritto di critica, ma il testo deve essere inattaccabile sotto tre punti fondamentali: “veridicità” (la critica deve tenersi ai dati veri), “pertinenza” (la critica deve limitarsi al suo oggetto e non trascendere su altri piani, men che meno quello personale) e “continenza” (la critica deve essere espressa in modo misurato e rispettoso).
Mi sembra una disposizione giusta e condivisibile, ovviamente. Nel nostro campo, la critica enologica, ci teniamo ben al di qua da ogni possibile fraintendimento. Ci muoviamo talvolta sulle uova, e in ogni occasione sottolineiamo come al centro del nostro lavoro ci sia il rispetto del lavoro altrui. Guai a urtare la sensibilità di una casa vinicola. Bisogna misurare le parole con il bilancino. In molti casi ci troviamo quindi ad abbondare nell’uso degli eufemismi: “il 2005 non è tra le migliori annate del produttore”, “l’azienda è in una fase di ripensamento delle sue strategie produttive”, eccetera.
Attenzione. Il confine tra senso della misura da una parte, e timidezza critica dall’altra, può sembrare sottile, ma c’è ed è netto. Noi esponiamo con chiarezza (di solito…) le nostre opinioni. Cerchiamo di non usare frasi equivoche e di esprimere i nostri giudizi in modo aperto. Però niente mi impedisce di pensare con un po’ di invidia a come potrebbe essere una critica libera anche di affondare il colpo, qua e là. Non libera di denigrare e offendere gratuitamente, beninteso. Ma libera di dire con brutale franchezza: “il vino x è cattivo”, “è indegno della fama di chi lo produce”, oppure di suggerire con forza ai propri lettori di non comprare una certa bottiglia.
Si dirà: giornalisti così perentori esistono anche in Italia. Certo, ma – a prescindere dalla condivisibilità dei giudizi espressi – i suddetti critici si sono pure beccati spesso fior di querele, e quel che è peggio in qualche caso non hanno poi potuto continuare a esercitare serenamente il loro lavoro.
Perciò bravo Jeremy, tu puoi permetterti di essere un simpatico criminale, ma solo a parole: dal punto di vista deontologico nessuno può avere qualcosa da ridire sul tuo comportamento, non hai cointeressenze con case automobilistiche o altri legami equivoci (almeno per quanto si sa). Ti “limiti” a dire quello che pensi, anche in una forma brusca o irriverente. Peccato che la produzione di vini inglesi non sia molto importante e diffusa…