di Giancarlo Marino
La bella addormentata nel bosco (Volnay Champans 1964 Voillot)
La Côte de Beaune non ha dato e non darà mai vini all’altezza di quelli della Côte de Nuits. Quello che mi ha sempre disturbato nel sentire affermazioni del genere, non è tanto la verità o meno dell’assunto, quanto la constatazione che per qualcuno sia impossibile evitare di ingabbiare tutto in classifiche e graduatorie. Lo so da me, e non occorre un mago per saperlo, che in Côte de Nuits nascono le gemme più preziose della Côte d’Or, ma questo non vuol dire che più a sud non possano nascere, seppur più raramente, vini ugualmente grandi. Avrei potuto indicarne almeno altri 4 o 5 dello stesso produttore (Pommard Rugiens 1971 e 1978, Pommard Les Epenots 1971 i primi che mi vengono in mente) o di altri produttori (Volnay Clos des Chenes 1991 e 1993 di Lafarge i primi che spuntano da qualche cassetto della mia memoria).
Ho scelto Champans 1964 per il contesto e l’occasione. Iniziammo a berla tra le botti, dopo che Jean Pierre Charlot era andato a prendere la bottiglia in uno degli anfratti ricoperti di lanugine grigiastra della sua cantina a Volnay; finimmo di berla la sera stessa a cena, tra amici, risate, chiacchiericci e prese per i fondelli. È un vino generoso, grosso e pieno di energia, esattamente come Jean-Pierre anche se è opera del suocero Joseph Voillot. Ma è anche un vino di innata eleganza, finezza del tratto, sicurezza di sé, complessità impensabile, solo a concedergli la giusta attesa affinché un principe le doni un bacio e la risvegli dal lungo sonno.
Miseria e nobiltà (Monthelie sur la Velle 2001 Eric de Suremain)
“Torno nella miseria, però non mi lamento: mi basta di sapere che il pubblico è contento”. È la battuta finale di Felice Sciosciamocca nel film tratto dall’omonimo libro di Eduardo Scarpetta, e potrebbe felicemente attagliarsi a questo piccolo vino, di origini certamente modeste (almeno nel contesto in cui si inserisce) ma che a volte riesce come in una favola a trasformarsi in un principe. Un vino di trasparenze di ruscello, l’atmosfera dei piccoli cimiteri con l’inconfondibile odore di fiori recisi, nel nostro caso blu, in un corpo di irraggiungibile leggerezza. Più che mostrare evoca, suggerisce, sussurra, come la piuma su cui sfilano i titoli di coda del film Forrest Gump, che dopo aver fluttuato nell’aria sospinta dalla brezza e aver dato così un senso nobile al suo essere, torna nell’oblio.
Così è (se vi pare) (Musigny 2006 Roumier)
Ovvero dell’impossibilità di conoscere del tutto la verità, perché questa non è assoluta ma, per dirla con il personaggio dal velo nero della commedia, “io sono colei che mi si crede” o anche, citando nuovamente Pirandello, “uno, nessuno, centomila”.
È un vino misterioso e affascinante, difficile da mettere a fuoco per una sua innata reticenza a svelare i segni del volto. Lo abbiamo provato nel 2007 dalla botte (trovarne una bottiglia sul mercato e riuscire a pagarne il prezzo sono di uguale difficoltà) e ne siamo rimasti rapiti, ma ognuno a modo suo. Io mi sono ritrovato avvolto dalla sua aria di mistero e dal suo atteggiamento schivo (vino di testa, insomma), ma ricordo che uno degli amici che erano con me ne era stato travolto in modo viscerale (vino di pancia, l’ho detto) al punto di mostrare sulle braccia scoperte chiari segni di pelle d’oca.
Sogno di una notte di mezza estate (Musigny 2002 De Vogüé)
Questa volta è il titolo della commedia di Shakespeare, e non il suo tema, a fornirmi lo spunto. L’ho provato dalla botte di un tardo pomeriggio dell’estate del 2003 con gli amici Luca e Bruno. Se François Millet, che ci accompagnò nella visita, non ci avesse bruscamente risvegliato con i suoi spigolosi modi, avremmo continuato a sognare per non so quanto tempo. Uno di quei vini per i quali varrebbe la pena andare a piedi fino a Chambolle Musigny, partendo da Roma intendo. Nei miei ricordi è ancora vivido il ferma indagine del volto di Bruno: non era solito elargire sorrisi di compiacimento, Bruno, ma quella volta aveva fatto una eccezione e non c’era bisogno di molte parole per capire che il vino aveva scalfito perfino la sua dura corazza; per una volta non riuscì a dire che il suo amato Barolo era migliore. Si, perché quel vino non era “tanto”, era “tutto”.
Il buio oltre la siepe (Latricieres Chambertin 2001 Leroy)
La siepe era rappresentata per me dal pregiudizio nei confronti dei vini della divina Madame Lalou Bize-Leroy. Per molti appassionati l’indiscutibile vertice qualitativo della Borgogna; per me, forse memore della favola della volpe e l’uva, vini che difficilmente potevano giustificare quei prezzi stratosferici considerando il marchio di fabbrica che confondeva e omogeneizzava buona parte dei cru prodotti. Mi salvò la curiosità e quel po’ di sana laicità che ancora conservavo. Sacrificando qualche mia rara bottiglia, ne comprai alcune della divina, tra cui il suddetto Latricieres. Il marchio di fabbrica era lì, in particolare al naso con gli inconfondibili sbuffi di incenso, ma il vino era semplicemente fantastico e, soprattutto, “sapeva” di Latricieres. Da allora i prezzi sono ulteriormente lievitati e dubito che comprerò altri suoi vini, ma il titolo di divina, oggi lo so, non fu usurpato.
C’era una volta in america (La Tâche 2000 DRC)
Non è certamente la migliore annata di sempre e non è neanche la migliore annata tra quelle che sono riuscito a bere. Ma nelle due occasioni in cui l’ho bevuta (la prima bottiglia fu un mio “regalo di nozze” per un caro amico), sono stato immediatamente catapultato sulla scena finale del bellissimo film di Sergio Leone, con un immenso Robert De Niro sdraiato in una fumeria d’oppio. La Tâche 2000 non è un vino, è un infuso di oppio, uno dei pochi vini che riconoscerei tra mille il giorno che qualcuno avrà la grazia di farmene dono, dato che le mie bottiglie sono finite.
La Cappella Sistina (Clos de la Roche 1985 Ponsot)
È un vino che farei bere, oggi, a chi non riesce a capire cosa si perde per non avere la pazienza di attendere. Posso comprendere come a molti piaccia l’avvenenza di un giovane pinò nuar, piace anche a me, ma ogni tanto è bene piantare lungo la strada una pietra miliare per segnalare le distanze tra i luoghi e le cose, e ciò è possibile solo con bottiglie cui il tempo abbia donato il fascino dell’opera compiuta. Allo stesso modo di come la Cappella Sistina è l’opera matura e definitiva della grandezza di Michelangelo.
L’infinito (La Romanée Conti 1999)
Alcuni passi dell’immortale poesia di Giacomo Leopardi sembrano essere stati scritti avendo in mano un calice di questo vino.
…
Ma sedendo e rimirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura.
…
Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
In una classifica dei più grandi vini che io abbia mai bevuto non inserirò mai La Romanée Conti 1999. Questo vino non è classificabile, è oltre.
La Rosa purpurea del Cairo (Beaune Greves vigne de l’Enfant Jesus 1865)
In teoria avrei dovuto parlare di vini bevuti, e questo non l’ho mai bevuto. Ma nonostante si avvicini l’età del pensionamento mi rimane sempre la curiosità di qualcosa di nuovo e la voglia di sognare. Quasi certamente non riuscirò mai a berne una bottiglia, così spero che, a forza di vedermi sognare, Bernard Bouchard (colui che acquistò nel 1820 lo Château de Beaune dove sarà vinificato l’Enfant Jesus del 1865) uscirà dallo schermo e si materializzerà davanti a me dicendomi “perbacco, deve piacerti molto questo vino” e ricambierà la mia passione.