di Giancarlo Marino
Coming-out
Non appena si è saputo che perfino il noto cantautore X apprezzava il vino di Borgogna, si è sollevato nel mondo webbico un vero e proprio moto popolare: basta con la Borgogna, sempre Borgogna, solo Borgogna. Prima o poi accadrà: così come raramente si incontra una persona che ammetta di votare per Berlusconi, quasi se ne vergogni, capiterà che in pochi ammetteranno di bere Borgogna per non essere additati al pubblico ludibrio. Ecco perché ritengo che questo sia il momento più giusto per fare coming-out: amo la Borgogna e non solo non me ne vergogno, ma ne sono felice. Dimenticavo, a meno che non lo dica espressamente, quando parlo di Borgogna parlo di vino rosso. Per i bianchi, che pure apprezzo moltissimo, non devo fare coming-out per il semplice motivo che questi vini sono perennemente in competizione gustativa con almeno altre tre o quattro tipologie, con esiti alterni.
Prospettiva
Sono sempre interessato a capire perché, pur in ambiti sufficientemente omogenei, si apprezzi così diversamente il vino. Rileggendo un recente e interessante pezzullo dell’amico alterato Rizzo Fabiari, ho trovato indiretta conferma a un pensiero che mi frulla in testa da tempo: è un problema di prospettiva. Le cose non sono però così semplici, giacché ognuno ha la sua, scelta liberamente. C’è chi preferisce il vino nelle sue prime fasi adolescenziali, chi a maturità, chi si concentra sui particolari, chi preferisce una visione di insieme, chi nel valutare un vino parte dai difetti (perdonandone alcuni ma giammai altri), chi dai pregi (e alcuni pregi lo sono di più, altri meno), chi ha un approccio laico, chi fideistico, chi non deflette neanche sotto tortura dallo stereotipo faticosamente costruito in anni di studio e assaggi (mi pare si chiami tipicità), chi è pronto a rivedere e aggiornare le proprie convinzioni. Questo vale per tutti i vini, ovviamente, ma credo che valga ancor di più per la Borgogna. Basti pensare, dando una occhiata a chi mi sta più vicino, a chi preferisce vini “scarnificati”, in sottrazione come si è usi dire, e chi non transige e pretende che uno Chambolle Musigny abbia le curve al posto giusto e pazienza se si tende al Boteriano.
Testa, cuore e pancia
Nel mio immaginario, uno dei pregi più grandi della Borgogna è la capacità di farsi apprezzare in mille modi o, se preferite, di avere più chiavi di lettura, tutte ugualmente interessanti. Qualsiasi vino borgognone di buona razza contiene in sé, in misura e con rapporti variabili, qualcosa di intellettuale e cerebrale, qualcosa di sentimentale, evocativo e immaginifico, qualcosa di sensuale tendente all’erotico e al primordiale. E su questa osservazione, volendo, si può innestare quanto detto sulla prospettiva.
Al dunque
Tutto questo per dire che, se devo rispondere ad una domanda sulle mie preferenze borgognone, inevitabilmente lo faccio secondo la mia prospettiva e il mio senso estetico, già sapendo che le mie indicazioni non saranno necessariamente sovrapponibili a quelle degli altri, neppure a quelle dei compagni di merende con i quali ho maggiore affinità. E a questo punto si rende necessario svelare l’arcano: testa, cuore e pancia pari non sono, per me, e in quale ordine lo scoprirete strada facendo.
Quelli che sto per indicare non sono tutti i più grandi vini di Borgogna che io abbia bevuto, ma sono certamente quelli che per un motivo o per l’altro mi hanno segnato, a volte aprendomi le porte di una dimensione fino a quel momento sconosciuta, o quelli legati ad un momento speciale; troppo spesso, infatti, si trascura l’influenza che l’occasione e il contesto possono avere sull’apprezzamento di un vino.
Amici miei (Vosne Romanée Les Beaux Monts 1993 Rouget).
Il nuovo millennio era appena iniziato. Ci si conosceva in modo esclusivamente virtuale per la comune frequentazione di un forum sul vino, e pensai che sarebbe stato stimolante e divertente conoscerci di persona. L’occasione, o forse la scusa, fu quella di bere insieme qualcosa di Borgogna, zona per lo più sconosciuta agli altri. E questa bottiglia fu la prima bevuta insieme, la prima di centinaia e centinaia che si susseguirono e si susseguono ancora oggi. Non chiedetemi dettagli sul vino, ne ho un ricordo sbiadito come una vecchia fotografia ingiallita dal tempo, ma mi sembrò straordinario e, di certo, fu un bel modo di introdurre gli amici alla Borgogna.
“Amici miei”, perché alcuni di quei ragazzi sono diventati miei grandi amici, forse i migliori amici che ho, ma anche perché alcuni di loro hanno da sempre avuto il gusto della zingarata. Dalla “supercazzola con scappellamento” srotolata con aria serissima e con ritmo serrato alla sventurata di turno; alla scommessa organizzata alle spalle mie e di un altro amico per la quale ci saremmo dovuti togliere un indumento per ogni bottiglia che l’Armando (che ovviamente già conosceva i vini) avesse indovinato, e potete immaginare come andò a finire; all’estate del 2006, allorquando chiedevamo a tutti i francesi che incontravamo per le vie di Beaune chi fossero i campioni del mondo.
Le affinità elettive (Chambertin 1991 Rousseau)
Dopo aver comprato di tutto nelle enoteche di Beaune, compresi che avrei dovuto studiare meglio la Borgogna: solo così avrei evitato di riempirmi la cantina di clamorose ciofeche. Anche nei libri di prima elementare sulla Borgogna c’era scritto che Rousseau era un grande vigneron e che Chambertin era uno dei cru più nobili. Ne comprai così alcune bottiglie dell’annata 1991, con il proposito di berle nel tempo, magari con maggiore consapevolezza. Il guaio fu che frequentavo all’epoca (si parla del 1995/1996) una persona che era diventata consapevole prima e meglio di me. Per la cronaca, si tratta di un alterato e, se lo vorrà, si svelerà lui stesso. Fu così che, a conclusione di ogni serata conviviale, alla domanda “ci beviamo un’ultima cosa?” rispondevo sempre di andare in cantina e prendere quello che preferiva. E dalla cantina tornava puntualmente con una bottiglia di Chambertin 1991, almeno finchè ne trovò, ovvero pochissimo tempo dopo.
È stato il mio primo grande Borgogna, quello che fece scoccare la scintilla, un lampo nella notte.
Fiesta (Vosne Romanee Brulées 2002 Engel)
E i bicchieri erano vuoti
e la bottiglia in pezzi
E il letto spalancato
e la porta sprangata
E tutte le stelle di vetro
della bellezza e della gioia
risplendevano nella polvere
della camera spazzata male
Ed io ubriaco morto
ero un fuoco di gioia
e tu ubriaca viva
nuda nelle mie braccia.
J. Prévert
Questa poesia avrebbe potuto scriverla Philippe Engel, se fosse stato un poeta. Ma forse lo è stato, anche se la sua poesia sgorgava non dalle parole ma dai vini. Questo vino racconta la sua gioia di vivere, il suo intendere il senso della vita. Un vino di struggente purezza, brillante come un diamante, che si offre all’amore nella sua più pura essenza, spoglio di ogni inutile orpello, che non si cura del nobile e raffinato disordine che lo circonda. Una leggera velatura per il deposito, un guizzo di riduzione, non modificano di una virgola la bellezza interiore del vino. Un vino da amare più che da bere. E a quel paese chi si intestardisce a rimarcarne i piccoli o grandi difetti.
[segue]