Polpette e rosmarino

piovono polpette a San Marco

di Raffaella Guidi Federzoni

Gli ingredienti sono tutti lì allineati, carne di manzo macinata, parmigiano grattugiato, aglio, pan grattato, sale, pepe, noce moscata, olio, vino bianco, un poco di salsa di pomodoro e, naturalmente, rosmarino.

Tutto comincia e finisce da una città che non è solo un luogo urbano, ma l’espressione materiale di un’esperienza metafisica, intesa come al di fuori e al di sopra, percettibile come “da lontano” quindi nella sua essenza, alterata.

Ci sono città più belle di altre, in Italia ed in Europa, nell’area mediterranea, esempi architettonici meravigliosi e classici, ricchi di stratificazioni culturali ed artistiche. Ci sono città del Nuovo e Nuovissimo Mondo che trasmettono l’ansia e la corsa verso il futuro, libere da condizionamenti storici e vibranti di novità. Ci sono formicai umani in cui la verticalità delle costruzioni, sempre più alte e sfacciate, calpesta la vita dei singoli con arroganza. Moderne torri di Babele destinate ad essere rimpiazzate nel giro di un paio di decenni.

Poi c’è Venezia, città creata da uomini in un posto improbabile ed insalubre. Città di mercanti scappati dalle paludi e proiettati verso quello che un tempo era la ricchezza. Città di buon governo, di pianificazione ingegneristica pragmatica. Città sviluppatasi su e contro l’acqua. Città di dominio dell’uomo sulla natura. Città al di fuori di ogni competizione, persino di quella della “città più bella del mondo”.

Ho rivisto Venezia in un giorno di sole, un giorno in cui l’acqua dei canali era tranquillizzata dalla luce addolcita di prima estate. La calura non era  umida, bensì temperata da soffi di brezza marina, neanche troppo olezzanti di sentori lagunari.

L’ho rivista nella sua bellezza feroce e continua, in tutte le calli, in tutti i campielli. L’ho percorsa quasi ferendomi i piedi nei sandali bassi. L’ho scrutata nelle piazzette remote e poco visitate,  nelle facciate delle chiese, nei nomi dei luoghi, evocativi di un passato remoto. Ho spaziato lo sguardo ed il respiro verso il Lido e le isole all’orizzonte. Sono state ore infinite, ore dai toni polverosi e dorati, ore dell’anima.

A farmi compagnia è stato un Virgilio particolare, qualcuno che mi ha spiegato il perché di quello che stavo vedendo ed avvertendo. Non sarebbe stato lo stesso, da sola avrei sicuramente gioito, ma non così in profondità. C’è stato bisogno dell’aiuto di chi ne sapeva di più, senza presunzione.

Gli ingredienti sono sempre lì, in attesa. Con uno sforzo, mi tolgo dallo scrivere e comincio a sminuzzare il rosmarino insieme all’aglio. E’ un’operazione meticolosa,  il battuto deve essere molto fine, io non amo particolarmente l’aglio, il resto della famiglia sì, per cui mi piego al compromesso. Finito lo sminuzzamento, in un recipiente largo preparo l’impasto. Anche per questo c’è un metodo, in più riprese cospargo il macinato con il battuttino, una spolverata di sale e pepe, parmigiano grattugiato e pan grattato. Un passaggio che ripeto più volte, l’ultima anche con un pizzico di noce moscata. Niente uovo, perché per me appesantisce. Le prime volte ho bisogno di  una forchetta, ma alla fine uso le mani per impastare, come per il pane. Quando è tutto ben amalgamato, lascio riposare.

Ci sono alcuni vini che esulano da qualsiasi categoria, anche quella de “i vini più buoni del mondo”. Vini che ci rimangono nell’anima, pur nella limitatezza del loro essere vino e non opera d’arte. Vini che però necessitano di un’interpretazione esperta, di un linguaggio che dia corpo e sostanza alla nostra percezione perché questa si approfondisca e trovi la giusta collocazione nella memoria, o nell’aspettativa del prossimo augurabile assaggio.

Affinché ciò avvenga molti di noi, umilmente, si devono affidare ad un Virgilio. La funzione di alcuni bravi narratori vinosi è proprio questa: essere in grado di spiegare e decifrare quello che noi non siamo in grado di fare. Privi di presunzione riescono a completare ed appagare la nostra necessità di sapere. Ci rendono edotti della nostra stessa conoscenza.

Senza di loro il quadro rimane incompiuto e la nostra esperienza incompleta. Il futuro ci dirà se ne potremo fare a meno o no. Per me sono tutt’ora indispensabili.

Ritorno prosaicamente alle polpette. Con metodica pazienza, le formerò roteando fra le mani un pizzico d’impasto grande come una noce, cercando di renderle il più compatte possibile in modo che non si sfaldino al momento della cottura. Le infarinerò leggermente e depositerò in un tegame dai bordi alti, dopo aver scaldato un poco di olio d’oliva mescolato al vino bianco. La cottura sarà lenta a fuoco dolce. Negli ultimi dieci minuti aggiungerò quel che basta di salsa di pomodoro, prestando attenzione perché non si attacchino al fondo. Un’ultima spolverata di sale e pepe. Se non riusciremo a mangiarle tutte questa sera, domani saranno ancora più buone.

Queste sono le polpette spartane di casa mia.

One Comment to “Polpette e rosmarino”

  1. “Privi di presunzione riescono a completare ed appagare la nostra necessità di sapere.”
    Amen.
    Purtroppo lontano da Venezia potresti ritrovarti accerchiata da tuttologi che ieri facevano commessi viaggiatori di utensileria da ferramenta e oggi si presentano al mondo come narratori-autori-onniscienti del vino, manco fossero Manzoni.
    Fortunatamente resiste il baluardo alterato.
    ps. grazie per la ricetta! e w la noce moscata! :)

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