di Raffaella Guidi Federzoni
Il mio paese di residenza ospita da secoli un meraviglioso insieme architettonico compreso non solo di chiesa, ma anche di due chiostri cinquecenteschi ed un museo, più qualche cunicolo laterale. Di questi tempi terreni e pragmatici gli ambienti più frequentati sono quelli dei chiostri, ma non mi lamento considerando che i calpestatori di tali spazi sono spesso persone umili e desiderose di conoscere.
Si tratta, tanto per cambiare, di eno-appassionati, alcuni dei quali abituati ad un appuntamento che si tiene ogni anno verso febbraio e che riguarda le anteprime delle nuove annate di Brunello e Rosso di Montalcino.
Io stessa non conto più le volte che ho salito le poche scale che dall’ingresso portano ai chiostri, sia per degustare che per mescere, al di qua e al di là delle barricate vinose.
Una volta tanto però, invece di affrontare freddo, gelo, e pioggia pur di assaggiare, mi sono trovata lì nella tepore di una giornata ancora indecisa fra la tarda primavera e la prima estate. L’occasione ghiottissima era offerta da una manifestazione organizzata da una coppia formidabile* insieme a tanti amici anche loro formidabili.
Un evento dedicato interamente ai vini spontanei (vedi mio precedente post) con una selezione di espositori non solo nazionali. In verità mi ci sono recata proprio con l’intento di conoscere qualcosa prodotto al di là delle Alpi – da quelle Marittime fino al Carso -, ma avevo fatto i conti senza l’oste, anzi, Ostessa.
Difatti, quando degusto da sola mi muovo abbastanza casualmente, guidata dall’occhio più che dal fiuto. Scelgo in base a chi c’è dietro il banchetto, l’aspetto delle etichette, quanta ressa c’è per raggiungere la mescita o dal nome della zona di produzione. Il mio è un movimento ondivago, irrazionale, scomposto e asimmetrico.
In questo caso però avevo una guida femminile precisa, puntuale e puntigliosa. Una donna che accompagna un’ intensa capacità degustativa e profonda conoscenza ad un’implacabile volontà che si può riassumere in “tutto e per bene”.
Cosicché “facciamo prima tutti i bianchi” e abbiamo assaggiato tutti i vini bianchi. Dopo la pausa pranzo, e meno male che non abito lontano così mi sono potuta concedere una pennichella ristoratrice, ho raggiunto di nuovo la mia adorabile stakanovista per affrontare i vini rossi.
L’aspetto negativo di tutto ciò, oltre ad una certa nebbia alcolica accompagnata dalla sensazione di indossare un elmo di ferro sempre più stretto intorno alla fronte sudaticcia, è stato quello di non esser riuscita a prendere appunti, a parte qualche nota sparsa.
Nell’insieme questo non è poi importante, altri scriveranno a riguardo dei singoli vini e produttori. Il mio contributo si limita ad alcune note sull’aspetto generale di una manifestazione tutto sommato innovativa e molto interessante che spero venga ripetuta ed ampliata nei prossimi anni.
La prima impressione è che il fermento sovversivo riguardante una produzione di vini che propone metodi ancestrali-antichi-dismessi si stia assestando con risultati più convincenti e centrati. Soprattutto da zone e vitigni che da tempo hanno consolidato anche convenzionalmente la vocazione a vini semplicemente e costantemente buoni. Gran parte dei vini da me assaggiati, almeno quelli da me più compresi ed apprezzati, non sono prodotti con vinificazioni estreme, hanno però come minimo comune multiplo una mano leggerissima, per l’utilizzo della solforosa in cantina e per i trattamenti in vigna, il disdegno per il controllo della temperatura durante la vinificazione ed una predilezione per magliette e camicie variopinte (i maschi). Quest’ultimo aspetto mi ha provocato qualche lacrimuccia nostalgica anni settanta.
La seconda impressione è che i produttori italiani siano più avanti come consistenza e qualità. Ciò è probabilmente dovuto ad una presenza domestica più importante, i vignaioli stranieri erano in minoranza, però quel che c’era di italiano era maggiormente equilibrato. Alcuni vini extra Italia dimostravano troppa stravaganza interpretativa, eccessiva ossidazione o acidità volatile, riduzioni irrisolvibili o semplicemente una vinificazione sbagliata dovuta forse ad un eccesso di non-intervento dettato da convinzioni eno-fondamentaliste.
O forse sono io che ancora non ci arrivo. Davanti a qualche bicchiere mi sono sentita come davanti a certe installazioni di arte contemporanea: perché tutta questa fatica nel coprire il bel parquet della sala?
Intestardita, alla fine della mattinata dedicata ai vini bianchi ho deciso di confrontarmi con un vitigno che mi è sempre risultato ostico e che a volte mi ha procurato mal di testa, mal di stomaco e prurito diffuso : il Riesling.
Voglio dire, non Riesling buttato lì, quello prodotto ovunque nel mondo, dalla Sicilia all’Australia passando dal Sud America. Quello che ormai si è posizionato fra i quattro vini proposti al bicchiere nel novanta per cento dei ristoranti medio-bassi all over the world, insieme a Pinot Grigio, Sauvignon e Chardonnay, n’importe pas qua.
Nel chiostro era presente un solo produttore germanico** con cinque varianti di Riesling, da vigne situate nel cuore della Mosella. Un produttore simbolo di un vitigno simbolo in una regione simbolo che può provocare sentenze definitive emesse da bocche millenials/enocaghette “in realtà il miglior vino bianco del mondo”.
Il simpaticissimo ed umilissimo vignaiolo mi ha guidato nell’assaggio, con una nonchalance più British che teutonica, partendo dal vino base per arrivare alla produzione più piccola e prestigiosa.
Che dire? Niente sguardi al parquet in questo caso, bensì un volo panoramico che ha visto in tutte e cinque le tappe un bel sorso dinamico, tagliente, più immediato all’inizio e poi via via più complesso, ricco di sostanza e carattere. Il vitigno non si è mai concesso completamente, come avrebbe potuto? Troppo giovane ed inesperto, ma, perbacco, nella prima giovinezza già soffuso di note citrine, silice, sale, pesca bianca.
A poco a poco l’acidità e l’astringenza – questa sì secca ma mai anoressica – hanno dato spazio ad una dolcezza nervosa, per nulla melassosa. La spina dorsale è rimasta sempre presente come una frustata, però morbida e guantata. L’ultimo vino presentava note di pompa di benzina (più Shell che Agip***), ma senza sovrastare, molto attenuate e avvolte da una complessità fruttata e floreale.
Veramente il “miglior bianco del mondo?”
Lascio la risposta ad altri, per me un’esperienza senza dubbio illuminante. Il gentilissimo produttore mi ha inseguito per darmi il suo biglietto da visita, che ho naturalmente perso, dopo aver scritto qualche scarabocchio sul retro. La memoria del crollo di un’avversione, forse l’inizio di una conversione, rimane comunque importante.
Così come rimane importante il ricordo di una caracollata nel wild world enoico, quel genere di avventura avventurosa da cui ritorni leggermente cambiata, oltreché ringiovanita.
- Marco Arcuri e Francesca Padovani, ideatori e realizzatori di “Tutto in un sorso” – Chiostro di Sant’Agostino 3e 4 giugno 2018.
** Immich Batterieberg – non il nome più facile del mondo.
*** Copyright di Fabio Rizzari, se non ricordo male.