di Giampaolo Gravina
Introduzione della redazione alterata
Chianti Classico e figlio di mezzadro è il titolo di un libro generoso e originale, lontano dai frusti cliché editoriali. Lo ha scritto Silvano Formigli, già direttore commerciale di Cantine del Grevepesa e Castello di Ama, ma più ancora fondatore nel 1989 della Selezione Fattorie, pionieristica società di distribuzione consacrata a vignaioli e aziende agricole.
Raccontandosi in prima persona, Silvano ha composto un anomalo patchwork di saggio e autobiografia, che si sottrae alle definizioni convenzionali. Uno dei protagonisti è il Chianti Classico, di cui il libro illumina la storia e l’identità: Chianti Classico inteso come vino e come territorio, entrambi simultaneamente oggetti d’amore e pomi della discordia. Alla vicenda del Chianti Classico si intreccia poi quella dell’altro protagonista, cioè l’autore stesso, che ripercorre la propria storia familiare e professionale con brillante profusione di aneddoti. E qui la faccenda si fa ancora più interessante, l’indagine socio-economica di un fenomeno cruciale come quello della mezzadria cede il passo al flusso dei ricordi personali e la vitalità del racconto si fa carico di un’esemplarità preziosa, lasciando emergere verità tutt’altro che ovvie.
Quello di Silvano Formigli è un nome che suona familiare a molti appassionati della nostra generazione, che hanno cominciato a bere vino all’indomani dello scandalo del metanolo e oggi accumulano querele dai legali del proprio fegato. Specialmente familiare a chi il vino non lo ha solo comprato e bevuto, ma anche venduto e raccontato, studiato e perfino insegnato. È il caso dell’amico collega e sodale Giampaolo Gravina, alterato quanto basta per non essersi mai rassegnato a un’identità professionale univoca.
Formigli lo ha convocato insieme a un nutrito drappello di altri cronisti, agronomi, sommelier, vignaioli, enotecari, importatori ed enologi. A tutti costoro – tra i quali annotiamo in ordine sparso: Angelo Gaja e Daniel Thomases, Salvo Foti e Carlin Petrini, Carlo Macchi e Lorenzo Landi, Gianni e Paola Mura, gli amici dell’Acquabuona, nonché l’esimio Alessandro Masnaghetti detto il Masna – l’autore ha chiesto qualche riga di presentazione, in ricordo dei bei tempi andati. E ne ha ricavato quasi trenta pagine di testimonianze colme di affetto ma povere di affettazione, inserite a inizio lettura, tra l’introduzione e la prefazione.
Il ritratto di Silvano abbozzato da questi brevi testi si organizza in modo del tutto anarchico come un suggestivo amarcord corale e trasversale. E serve da originale cornice a uno spaccato di storia del vino italico che potrà senz’altro coinvolgere per più aspetti anche chi non abbia ancora conosciuto personalmente il Formigli. Pubblicando qui il pezzullo di Giampòl, suggeriamo perciò a tutti gli appassionati di avvicinarsi a un libro di sorprendente intensità; e visto che è fuori commercio, per sapere come riceverne qualche copia invitiamo a scrivere una mail direttamente a Silvano: silvano.formigli@selezionefattorie.com. Buona lettura.
Quando trent’anni fa ho avvicinato il mondo del vino, mi ero da poco trasferito a Roma. Da squattrinato studente in filosofia, la sera alzavo due soldini stappando le mie prime bottiglie, in una città dove le enoteche si accingevano a diventare wine bar. E senza averne nessuna consapevolezza, preparavo quell’incontro tra l’estetica e la degustazione che si sarebbe poi rivelato decisivo per il mio futuro professionale. Del resto «la vita, amico, è l’arte dell’incontro», cantava Vinicius.
Tra gli incontri di maggiore ispirazione negli anni del mio apprendistato romano, quello con Paolo Poli conserva ancora oggi un rilievo speciale. Paolo il vino lo vendeva, ma la sua passione, la sua umanità, ben poco avevano a che vedere con la routine del mestiere del rappresentante. Era un genovese sconclusionato quanto generoso: un imbecille, come avrebbe scritto di sé, raccogliendo in un libro con questo titolo alcune delle sue poesie più ispirate. Ma di lui mi fidavo. E facevo bene, perché con la sensibilità da rabdomante che appartiene ai veri artisti dell’incontro, Paolo mi ha fatto conoscere vini e persone in cui c’era sempre qualcosa di sorprendente da scoprire. «Devi assolutamente incontrare Silvano» mi disse un giorno, nei primi anni 90, rassegnandosi di fronte all’ostinazione che mostravo nel farneticante progetto di aprire una mia bottiglieria, per dare almeno qualcosa da bere a quella filosofia che non riusciva a darmi lei da mangiare.
Così conobbi Silvano Formigli, che aveva da poco varato la sua Selezione Fattorie. Non era soltanto una delle persone che Paolo stimava di più, motivo già di per sé sufficiente ai miei occhi a garantirgli un ascendente e un carisma non comuni; ma anche una specie di esploratore, che raccoglieva il lavoro di molti artigiani del gusto secondo una pionieristica linea di ricerca. Certamente, i vini e gli oli che proponeva avevano tutte le prerogative di qualità necessarie a soddisfare le esigenze di mercato, ma il più delle volte dietro quei sapori c’era un valore aggiunto di umanità, un’eccedenza di senso che non potevi ricondurre alle sole caratteristiche organolettiche dei prodotti. Perciò, quando finalmente quel mio vaneggiamento prese forma concreta di locale e aprimmo Uno e bino, Silvano si rivelò un interlocutore prezioso, un vero e proprio moltiplicatore di incontri. E quel suo essere professionista del saper bere in un’accezione così coinvolgente, oltre a propiziare molti acquisti da un catalogo traboccante di rivelazioni, finiva spesso per alimentare uno scambio a più voci, ispirato dalla comune esigenza di dare del tu non solo al vino, ma al mondo tout court.
Metteva così radici la mia convinzione che il saper bere, se esiste, piuttosto che riposare soltanto su un decalogo di competenze tecniche da assimilare e conoscenze da trasmettere, deve rivendicare il valore esplorativo di un compito, da verificare ogni volta in una pluralità di contesti e relazioni. Oggi è un fatto acclarato, e alcuni critici del vino tra i più consapevoli e propositivi – Nicola Perullo e Sandro Sangiorgi in primis – insistono nel ribadire che il gusto non è un senso ma un compito, e che il saper bere va iscritto d’ufficio nell’orizzonte di una maieutica, restando perciò refrattario a ogni dottrina.
A modo suo, mi sembra che Silvano questa consapevolezza l’avesse interiorizzata in anticipo. E credo di non forzare troppo il suo pensiero se dico che il vino al centro del racconto e delle riflessioni di questo libro va inteso come un fatto di civiltà, nella precisa accezione di nutrimento fondativo della nostra comune cultura materiale. Una cultura in cui l’educazione al vino riannoda il legame imprescindibile con la terra che lo origina. E ci insegna, tra le altre cose, anche a stare meglio al mondo, con più gusto e più dignità.
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