di Rizzo Fabiari
Nella sciatteria dell’italiano parlato attualmente mi deprimono molti caramogi: espressioni ripetitive, ridicole locuzioni modaiole, errori di pronuncia. Mi irrita la progressiva perdita del raddoppiamento sintattico, per cominciare. Di cosa si tratta? In italiano si raddoppia la consonante iniziale di una parola in diversi casi sintattici; per capirci con qualche esempio: si scrive “ho fame”, “ho sete”, “a presto”, ma si pronuncia, trascritto brutalmente, “hoffàme”, “hosséte”, “apprèsto”.
Una buona abitudine che è sempre meno seguita. Per trovarne qualche vestigia basta ascoltare un toscano, o vedere qualche vecchio film degli anni 50: all’epoca l’attore o il doppiatore dicevano ad esempio “vestito daddonna”, “persona dappoco”.
Oggi, ahinoi, molti italici, pensando di parlare in modo elegante, scandiscono “ho…….fame”, “ho…….sete”. Vale soprattutto per i connazionali nordici. Irritante in modo speciale la pubblicità di un panettone che da anni circola implacabilmente nel periodo natalizio: un bambino zuccherosissimo, per favorire la discesa di Babbo Natale dal camino, scandisce un molesto: “bùttati, che morbido”; e non il corretto “bùttati, che è mmorbido”.
Una pronuncia fastidiosa che alcune volte genera veri e propri equivoci. In una vecchia canzone, Milva gorgheggiava: “chissà se vero… chissà se vero”: stando alla sua pronuncia, il senso della frase non risulterebbe “chissà se è vvero”, ma “chissà Severo”; sottintendendo “chissà (Settimio) Severo (cosa sta facendo)”.
Chiudo con un accorato appello ai numerosi colleghi, in particolare giovani,
che ripetono in maniera ormai ossessiva alcuni “stilemi” ritenuti “cool”. Usateli con parsimonia. Ecco i primi di una lunga lista: “piuttosto che”, “senza se e senza ma”, “didascalizzami questo” (con le infinite varianti del caso; in generale: “xxxzzami questo”), e l’ormai onnipresente “ma anche no”.
* cit. Squallor