di Raffaella Guidi Federzoni
Questo pezzo non dovrei scriverlo io, ma un cantiniere. Uno di quelli che durante la vendemmia fa le nottate per seguire le prime mutazioni che porteranno il succo d’uva iniziale al vino finale. Praticamente un’ostetrica. Non solo, una balia ed un tutore. A volte un infermiere.
Il cantiniere è quella figura che fa da sfondo alle visite in cantina e agli assaggi da botte di visitatori illustri o anonimi. Anche se ad indossarne le vesti è il proprietario, in questi frangenti la sua mansione di cellar master predomina. Parlo naturalmente di persone reali e non di macchiette. La cantina non è lo spazio adatto per simulatori o primedonne. Qui l’unico interprete è il vino, la sceneggiatura l’ha scritta la vigna, il regista è l’uomo. Il red carpet è situato altrove.
In tutti questi anni non ho mai incontrato un cantiniere grasso. Per forza, con tutta la fatica che fa arrampicandosi su botti e vasche, trasportando pompe, lavorando di braccia giorno dopo giorno per seguire tutte quelle operazioni di cantina che ogni tanto leggiamo su pubblicazioni specializzate, non ha certo tempo di metter su ciccia. E quando sta fermo è per controllare le analisi dei vini, mettere a posto i registri di imbottigliamento, assaggiare i campioni da botte o da vasca.
Proprio di assaggi vorrei parlare, facendomi umile portavoce di chi non ha tempo.
La curiosità degli appassionati, professionali o dilettanti, spinge comprensibilmente a voler sapere prima degli altri come è un vino nel suo stadio di vita iniziale per elucubrare come diventerà.
Il cantiniere gentile si presta a quella che spesso è una pantomima, accompagna alla botte, spurga il primo vino, ne versa dell’altro, lo assaggia, lo fa assaggiare e sopporta pazientemente i commenti che seguono. È fortunato perché con tutto quello che ha da fare non ha tempo di leggere i risultati di queste degustazioni quando compaiono su carta stampata o nel web. Troverebbe la stragrande maggioranza di questi totalmente demenziali. C’è di tutto, dall’intero catalogo di un orto botanico, all’offerta completa di una drogheria orientale. Mai nessuno che si limiti a scrivere “non c’ho capito un granché, mi sembra buono e senza difetti, se son rose fioriranno.”
Sarebbe come se dall’ecografia di un nascituro ci si spingesse a dire “a tredici anni gli spunteranno i primi peli, a diciotto raggiungerà un’altezza di mt 1,80, farà l’astrofisico e si sposerà a trenta” oppure “in quinta elementare sarà la reginetta della classe, diventerà signorina precocemente rispetto alle compagne, poco portata alla procreazione sconterà una menopausa anticipata.”
Le cose si complicano ancora di più quando il vino che se ne sta tranquillo a formarsi nel suo spazio ideale viene prematuramente incubato in bottiglia per essere presentato all’anteprima dell’anteprima per pochi eletti. Il poverino sarà sottoposto a tutta una serie di esami clinici da cui verranno estrapolati risultati a volte discreti e a volte comici.
Esagero? Certo che esagero, altrimenti non scriverei su codesta Accademia. Questo scritto è un gesto di solidarietà verso chi conosce sul serio le proprie creature e che sa che la capacità evolutiva di un vino è infinitamente superiore a quanto spesso si vuole imbrigliare in giudizi affrettati. Un vino in vasca o in botte esprime caratteristiche che poi andranno in gran parte perse una volta imbottigliato e avviato ad un affinamento che durerà anni e decenni.
La dura verità che nessuno ammetterà mai è che, nella stragrande maggioranza dei casi, il solo aspetto facilmente deducibile nei primi tempi della genesi di un vino è un difetto vistoso. Ma ciò, statene sicuri, non apparirà mai nei dotti scritti enoici che siamo abituati a leggere.