di Raffaella Guidi Federzoni
Da noi si beveva quotidianamente rosso toscano. Da settembre fino circa a Natale in fiaschi confezionati dalla mamma con l’aiuto della sottoscritta, imbottigliando il vino sfuso comprato in Maremma poco prima del rientro a Roma dopo le vacanze. Per Natale e Capodanno erano d’obbligo il Lambrusco e l’Asti Spumante, il primo piaceva alle nonne, il secondo ai bambini. Passate le feste, arrivavano in tavola fiaschi di Chianti di qualità mediocre comprati a prezzo molto contenuto. Nei due mesi estivi si depredavano le casse di Bianco della Cantina Sociale di Locorotondo, bottiglie ordinate da papà e bevute da me e da mio fratello rimasti in città a far finta di studiare o lavorare.
Questo è stato il mio prolungato battesimo enoico. Se mi dovessero processare per scarsa palatitudine , porterò i miei primi due decenni degustativi come prova, sperando che ciò alleggerisca la sentenza finale.
Siamo figli dei nostri genitori, ogni tanto c’è una generazione di rottura, mi farebbe piacere rappresentarla, ma so che non è così.
Quando cominciai a lavorare nel mondo vinoso avevo quindi un palato già formato, per quanto malamente, ed il muovermi fra cantine dove imperava il Sangiovese non ha fatto che accrescere la mia tendenza a giudicare un vino usando quel vitigno come punto di riferimento. Non solo, era il Sangiovese di Montalcino che fu e che adesso sta rinascendo, dopo anni di spinte verso concentrazione, potenza steroidea, sfruttamento del “tutto subito”. Sono per questo propensa a vini lunghi ed apparentemente smilzi, che si rivelano con calma e richiedono uno sforzino iniziale. La larghezza ed abbondanza di forme, non necessariamente sbagliate, mi spiazza.
L’impronta iniziale condiziona molte delle nostre scelte e dei nostri giudizi. Chi si occupa di assaggiare il vino e raccontarlo in modo professionale, se lo fa bene, è perché ha messo da parte la sua formazione di partenza, ha allenato il palato ad esperienze diverse, persino contrapposte. Addirittura ho conosciuto bravissimi degustatori astemi. Persone in grado di sezionare un vino e poi ricomporlo senza esserne schiavi del piacere di berlo. Estremi che non auguro a nessuno.
Una categoria a parte sono certi produttori, non necessariamente da generazioni e non necessariamente anziani. Nonostante abbiano il palato formato dalla frequentazione quotidiana con la loro cantina, riescono ad indovinare l’essenza e l’anima di un vino totalmente diverso in modo impensabile anche per il critico migliore.
Non è il mio caso.
A me piace bere il vino, con sempre più moderazione a causa dell’età. Posso dire di aver raggiunto un livello di apprezzamento superiore alla media umana e quasi paritario a quella eno-disumana di chi è del mio ambiente.
Sarebbe interessante leggere qualche racconto iniziatico di chi ora corrisponde in modo alterato in siffatta accademia.
- Ho scelto il termine “Empreinte” invece che “Imprinting” perché è il nome di un profumo di Courrèges che marcò la mia iniziazione adulta al mondo seduttivo dei parfums femminili, oggi chiamati dissennatamente “scents”, o peggio “fragrances”.