Una piccola cosa verde

di Armando Castagno

E mi raccomando – ammicca congedandosi – le faccia gli auguri, alla fine.
– Ah, d’accordo, dico io; e come si gira e alza i tacchi, fisso il muro e mi produco nella smorfia del “boh”. Gli auguri? A chi? Al bicchiere?
Ho mangiato piuttosto bene, devo ammettere, da solo con un buon libro, la mia compagnia ideale – perché quella consueta – in un viaggio di lavoro; mi sarebbe anche piaciuto star lì ad osservare il locale, i camerieri, il tipo di clientela, studiarne i comportamenti e i tic; ma purtroppo – chi arriva ultimo si accontenta – mi hanno schiaffato contro la parete. Ho detto che non importava, bastava che mi portassero subito la carta dei vini, che dovevo studiarla per bene.

L’ho studiata: ho scelto due mezzine, il bianco assai meglio del rosso.
Adesso ho davanti questo bicchierino. Dice l’amico Fritz che vale la pena, anche se è “piuttosto caro”.
Ah, ça c’est cher? C’est bien, non importa, gli ho sorriso splendido. Di cosa contenga so a malapena il nome, che mi dice poco, è per il numero che l’ho preso. Trascrivo tutto per ricordarmene. Va bene. Sentiamo questa squisitezza. Con carta e penna.

Del colore non riesco a vedere niente, mi sembra addirittura che il liquido sia di un verde pallido con riflessi ambra lucido e, girandolo con delicatezza, ocra. Colori che all’esame da sommelier non ammetterei dal candidato. Bah.

Metto il grugno proprio sopra il calice e mi sparano nel naso. Sento un botto e le narici che si divaricano di scatto, odo il lontano addio dei peli trebbiati dall’alcol. Si alza rapida dal liquido mostruoso una colonna atomica di odore e mi fa “dinnnn!” una campanella all’altezza, credo, della dura madre. Mi viene da nitrire come Furia, il cavallo del west. Sa di canfora e alcol, alcol e canfora; ma poi, pensandoci un minimo, anche di incenso che fumighi lento e di menta, o finocchio – o finocchietto? Foglia di tè, tè verde, direi. E liquirizia, come non l’ho sentita subito? E qualcosa di piccante e chiaro insieme, e una lieve nota come di salgemma, di incrostazione calcarea su un muro umido. Quella roba lì. E foglia di limone. E spezie che non decifro.

Quest’affare alieno, questo centerbe imbufalito, parla a me una lingua babelica, ma un sapore, un sapore normale, lo deve pur avere, così lo porto alla bocca; dico la verità, sto parato, paratissimo, penso che mi piallerà la lingua, che non distinguerò mai più il Sidro dal Sagrantino, e invece appena tocca la lingua parte una cantilena magica che mi disegna in un amen, dovreste chiedere alla boiserie, l’espressione più cretina della mia vicenda umana a oggi. Un carillon beffardo. Questa roba è un foulard, di fiatella alcolica non ha nemmeno l’accenno; la dolcezza è appena tratteggiata, come se la creatura acquattata dentro l’elisir si fosse mangiata lo zucchero e lo stesse masticando da un secolo intero. Non so dire di cosa sappia, non somiglia a nulla che abbia già bevuto; è buonissimo, un incanto.

L’uscita è netta di pepe bianco e di spezie orientali le più dolci; le più orientali; le più. Chiudo gli occhi. Poi li riapro, dopo essermi goduto un lunghissimo momento a metà tra la trance e lo smarrimento. C’è il conto da pagare. Porgo ginnico all’amico del giaguaro la carta di credito e mi avvedo di tre cose: a) che è notte fonda; b) che ci sono solo io nel ristorante; c) che il prezzo del bicchierino finale è quella cifra sulla destra. Quella lì.

Donc, fantastique. Aaaah, oui oui. Bon, del resto 58 euro il bicerìn…
Le abbiamo fatto un prezzo di favore, signore, sapevamo che avrebbe apprezzato; era il fondo della bottiglia.
– Ecco. Grazie. E certo. Un prezzo di favore. Au revoir, bonne nuit.
Pioviggina. Faccio il giro lungo, tre o quattro isolati in più, giusto per smaltire bene. Al secondo isolato vedo uno dei cartelli pubblicitari francesi in ferraglia nera finto art nouveau che si accartoccia come in un Dalì e poi torna al suo posto. Strabuzzo gli occhi sull’asfalto e metto a fuoco: dormire è la priorità. Arrivo all’hotel, digito il codice della porta carraia e vi entro a piedi; nella guardiola, il portiere pelato dal grande collo è stasera sostituito da Cthulhu, che saluto, e lui mi fa ciao con i tentacoli. Ih ih.

Mica male. Scendo a piedi al garage tenendo in mano un volante immaginario; scalo di soppiatto la parete nord dell’edificio lungo la scala antincendio, allo scoperto, cosicché mi inzuppo del tutto, perché la pioggia è aumentata; rido come un decerebrato. Trovo la camera, Dio sa come, al primo colpo; sempre ridendo, crollo a quattro di spade sul letto, fradicio e vestito; affondo in un dormiveglia fluido. Ultimo pensiero: ho l’aereo alle 9,20 a 250 km da qui.
Ma la felicità è una piccola cosa.

Una piccola cosa verde.

BATJER – Tarragone Verte 1912 Sélection pour les Etats-Unis (cl 50) – 27 luglio 2012.

Postilla
Quella della Tarragone Verte è una storia che merita una chiosa a margine del raccontino.
Si tratta della versione originale, sebbene prodotta “in esilio”, della Chartreuse, il leggendario liquore, cioè, che i monaci Certosini di Vauvert (Parigi) tentarono di produrre dal 1605, quando ricevettero dal Maresciallo Duca François-Hannibal d’Estrées un antico manoscritto con la formula dell’Elisir di lunga vita. La ricetta, si narra, era troppo complessa persino per loro, grandi conoscitori delle erbe medicinali e aromatiche; così si dovette aspettare il 1737, quando il liquore (Élixir Végétal de la Grande Chartreuse, 71°) vide finalmente la luce, ad opera dei monaci speziali della Grande Certosa (Grande Chartreuse) di Grénoble.

La straordinaria versione verde (Chartreuse Verte), un’altra bomba da 55° d’alcol e almeno 130 erbe diverse come “materia prima”, nacque nel 1764; quella gialla (Jaune), più dolce e con tenore alcolico di 40°, “solo” nel 1838. Nel 1903 il governo francese sciolse d’imperio l’ordine religioso ed espropriò la Certosa di Grénoble. La produzione del liquore in Francia continuò, ma della ricetta originaria nessuno riuscì ad entrare in possesso, e le Chartreuse di quegli anni, quelle che portano questo nome, sono di qualità dal medio allo scadente. I dosaggi erano infatti nelle mani di due monaci, e ciascuno per una sola parte. Reperito il posto giusto, i coraggiosi Certosini inaugurarono ben presto una distilleria in Spagna, a Tarragona, perpetuando così la produzione del loro capolavoro; è la “Tarragone Verte”, di cui si conservano ancora esemplari dei primissimi anni, tra i quali quello del racconto.
Dagli anni Trenta, la produzione è tornata a far base in Francia, nella Certosa di Voiron (Val d’Isère), dove la Chartreuse, in sei differenti tipologie, è tuttora realizzata. (ar.c.)

7 commenti to “Una piccola cosa verde”

  1. Racconto ai confini della realtà. Scritto così, basta leggerlo per viverlo.
    Green power.

  2. Si, concordo con NelleNuvole, ha dell’onirico, forse un po’ lisergico…
    grazie, racconto decisamente pregno della più nobile alterazione.

  3. “… Di cosa contenga so a malapena il nome, che mi dice poco…”
    Per una volta ho potuto pensare “ne so più o meno come Armando” e di questo ti ringrazio enormemente. :-)

  4. Fabio, infatti le notizie che trovi alla fine le ho tutte reperite dopo. E’ una storia quella dei monaci certosini e dei loro liquori piena zeppa di aneddoti, ce ne sono anche altri, molto sorprendenti. Vabbè. Una serata così, da raccontare. Grazie anche a Daniele e a RGF per la lettura e la condivisione. Il prossimo pezzo sarà sulla mia passione più grande, che non è il vino e non è l’arte. Altra roba da matti, lo so, ma perché nascondersi? ;)

    • “Il prossimo pezzo sarà sulla mia passione più grande, che non è il vino e non è l’arte. Altra roba da matti, lo so, ma perché nascondersi? ;)”

      Armando posso finalmente smettere di sognare ed aspettarmi un tuo definitivo ispiratissimo pezzo sulla PUKKIAKKA ?!

      Sì, ti prego, dimmi di sì, dalla tua magica penna non oso nemmeno pensare cosa potrebbe uscirne…

      :-))))))))

  5. Come sostiene giustamente Jean Charles (Marin), gli è opportuno e più stilizzato che gli accademici non commentino infra di loro li propri post. E purtuttavia non posso esimermi dal complimentare Armando per un testo maraviglioso e perfettamente alterato.

  6. Che mi perdoni Monsieur Marin, e comunque questa parte dello statuto alterato in cui non è opportuno e stilizzato commentare fra noi non mi trova d’accordo.
    Alla terza rilettura mi incuriosice il particolare 1912 Sélection pour les Etats-Unis, tempi in cui ancora non era entrato in vigore il proibizionismo, se non sbaglio. Mi chiedo se la sélection domestique fosse diversa. Me lo chiedo oziosamente perché ahimé non credo sia possibile fare una degustazione comparata.

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