Viva il Cabernet

noia-ampelografica

di Rizzo Fabiari

Per amore di verità, per la ricerca costante di un buon equibrio critico, e – soprattutto – per puro snobismo, trovo irritanti gli eccessi filoautoctoni degli ultimi anni: le conversazioni tra bevitori smaliziati sono oggi sature di rimandi ammiccanti al maglioppo, al bianchello mascarrese, al pizzangrillo grigio; simmetricamente, a vecchi amori rottamati quali chardonnay e merlot (scusate la parolaccia) si impone l’oblio e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

In questo clima di affettuosa simpatia per i vecchi casolari, meglio se diroccati, di scioglimento emotivo davanti a una vigna spelacchiata, che però ospita cinque commoventi viti per filare di romualdo prostrato, qua e là si perde di vista l’essenziale: cioè la qualità reale, non la qualità esibita.

Così preferisco un sano realismo, che badi al sodo. Ovviamente tra i due estremi toccati nell’ultimo decennio, ipermodernismo acritico e neopauperismo di rimbalzo, sostengo un meditato recupero delle nostre tradizioni migliori; e non certo per una concessione all’aria che tira, ma per una convinzione profonda. Benissimo quindi gli autoctoni e i vini inimitabili che possono far nascere: purché siano buoni autoctoni e che facciano nascere buoni vini.

Parallelamente però, guarda caso, non butto a mare ogni e qualunque vino che disgraziatamente sia fatto a partire da uve cosiddette “internazionali”, vale a dire per alcuni appassionati talebani l’abominio fatto vitivinicoltura.
Un esempio? beh, per esempio nella guida de lo Espresso 2011 abbiamo trovato eccellente il Cabernet Laurenz 2008 della Tenuta Waldgries. La relativa scheda recita sinteticamente: fresco, tonico, dal frutto fragrante e pienamente maturo, perfetta fusione con il legno, tatto vellutato, persistente e limpido finale di spezie.

C’è bisogno di riassumere didascalicamente la morale? La morale è ovvia: è meglio, molto meglio un Cabernet naturale, ben estratto, proporzionato, magari figlio di una terra dove il cabernet si coltiva da decenni o da oltre un secolo, rispetto a un rosso da uve restazzuolo in purezza furbesco, modaiolo, magari sgradevole e pseudorustico.

15 commenti to “Viva il Cabernet”

  1. “pseudorustico” è un aggettivo meraviglioso.
    Temo sia sin troppo poco usato oggidì nella critica enoica ma è solo questione di tempo.

  2. sono d’accordo e aggiungo di trovare parimenti irritante la crociata contro i vini che “sanno di legno” (anche quando non è vero) in quanto hanno soggiornato, orrore, in barrique. Salvo che poi nelle degustazioni cieche le botti piccole vengono spesso preferite dagli stessi che a parole le aborrono.

  3. Sento sopraggiungere, come tra il lusco e il brusco, un lynching party di talebani dell’Etna e del nerello mascalese…

  4. Di caratelli, 300 litri circa (a spacco non erano sempre precisi, tanto che si scriveva a mano quanti litri potevano contenere, piu’ o meno 10, forse anche 20 litri) non se ne fanno piu’, percio’ si deve comprare quel che passa il convento, pur di rispettare la tradizione toscana, cioe’ le barriques di rovere europeo (francese oppure sloveno ed ungherese, anche georgiano), che sono le botti di capacita’ piu’ vicina a quella tradizionale di secoli e secoli. In Piemonte si usa molto il fusto (1.000 litri), ma hanno anche il mezzo fusto, circa 500 litri, che pero’ ha un difetto: bastano uno o due gradi di sbalzo di temperatura se si aprono d’estate le porte della cantina e questa si trasforma in lago (come mi e’ capitato da Sartirano per far entrare la troupe di un film). Il legno ci vuole, porcaccia la miseria. Ma con ingegno, che fa anche rima. Ricordo Angelo Ballabio, che col Narbusto andava a 9 anni (in botte grande, pero’…) e non ho mai sentito odore di legno nel suo vino. Mai. Ma anche Hans Terzer con i Lagrein dunkel, in botti da 50 ettolitri per non si sa mai quanto, ma tanto. E anche lì di legno proprio… non se ne sente nulla. L’odore di falegnameria e’ proprio dei fattucchieri, degli alchimisti, del fai-da-te, oppure di quelli che ne abusano per mandare il vino in America, dove non basta nemmeno l’odore di legno, ma ci vuole anche la puzza di legno, senno’ non si vende un tubo, poveretti loro, ‘sti ammerigani. Del nome del vino, da Cazzarallaia a Rasputello, oppure del vitigno “toctono” (auto- o allo- o vaffan…) non me ne puo’ fregare di meno: mica bevo l’etichetta, io…

  5. Non hanno una gran fortuna i poveri autoctoni, prima scartati perché vecchi e obsoleti e ora perché troppo di moda.

  6. Quando danno vini buoni, hanno o dovrebbero avere grandissima fortuna

  7. Tutti i vini buoni hanno o dovrebbero avere fortuna, perfino quelli fatti con uve che in Italia ed in Europa nemmeno si conoscono: libanesi, georgiane, armene, turmene, eccetera. Percio’ continuo a pensare che bisognerebbe smettere di studiare a memoria l’etichetta nel preferire un vino per poi giudicarlo, ma sarebbe meglio fidarsi del proprio naso e della propria lingua per godersene bevendolo. Due metodi e due scopi diversi. C’e’ forse piu’ gente che scrive di gente che beve?

  8. Caro Mario Crosta frequento gli Stati Uniti da molto tempo e posso garantire palati raffinati e privi di pregiudizi. Altro che poveri “ammerigani”.
    Con stima e affetto.
    Mirco.

  9. Sì, Mirco, di palati raffinati negli states ce ne sono tanti, come riconoscevo in Tony Terlato, in Lucio Caputo e tanti altri, che non mi sognerei mai di chiamare ammerigani ne’ di appioppargli dei pregiudizi. Peccato che i grandi buyers, gli ammerigani veri, quelli che importano e che perfino ai veri Brunello chiedevano il certificato senno’ minchia, abbiano tutt’altre idee in fatto di vino. Ti ricordi ancora l’8 e mezzo o sei nato dopo?

    • Buongiorno Mario, faccio parte di chi ricorda l’8 e mezzo! Sono certo che amiamo gli stessi vini e conosco il lavoro dei buyers.

      • Visto che conosci il lavoro dei buyers, te ne posso raccontare una vera. Anni ed anni fa, quand’era ancora in via Palmanova 71 a Milano, lavoravo alla pneumatici Clément, al Servizio Qualita’. Facevamo anche gomme da ciclo-cross, con il battistrada tipo carroarmato, con una mescola molto resistente e cioe’ nera, contenente il nerofumo disperso, che ne aumenta, appunto, la resistenza. Un bel giorno l’ufficio commerciale ci mette in ordine di produzione 200 gomme verdi, 200 gialle, 200 rosse, 200 bianche e 200 blu. Cambiare mescola per 200 gomme soltanto vuol dire lavorare assolutamente in perdita, inoltre ne sarebbero uscirti dei battistrada senz’alcuna resistenza, pochi chilometri e fine della gomma. Abbiamo dovuto produrle lo stesso, protestando finche’ il Direttore Commerciale ci spiego’ che potevano anche costare il doppio, oppure il triplo, potevano richiedere una manutenzione straordinaria per via della pulizia assoluta degli stampi e dello scarto delle prime gomme che sarebbero uscite con colori indefinibili oppure macchie, ma dovevamo produrle lo stesso perche’ il buyer “ammerigano” le voleva a tutti i costi. Cose da pazzi, ‘sti ammerigani…
        Soltanto dopo averle spedite e’ emersa la verita’ e la cosa ci ha scioccato davvero. Le gomme colorate servivano per allestire le vetrine dei ciclisti con qualcosa di nuovo, mai visto, appunto una serie do gomme colorate che sembrava un arcobaleno. Il cliente medio americano e’ sensibilissimo alle novita’, sarebbe entrato in negozio chiedendo di comprare un paio di gomme rosse, oppure gialle per la sua bicicletta da cross. Il negoziante avrebbe detto “Aspetti che controllo se ci sono”, sarebbe sparito in magazzino e sarebbe poi ritornato al bancone per dire “Spiacente, le abbiamo finite tutte in un batter d’occhio, quelle colorate, ci sono rimaste soltanto quelle nere, quelle molto piu’ resistenti e con una durata eccezionale: per quelle colorate si dovrebbe aspettare la prossima consegna, diciamo sei mesi…, sa, arrivano dall’Italia. Potrei farle uno sconto del 25% se le compra subito”. E così il cliente medio americano, davanti al figlio che voleva quelle nuove gomme italiane con la bandierina stampata in etichetta da far vedere agli amici come si fa con un modellino Ferrari, avrebbe insistito col padre per farsele comprare, quelle nere. Totale della fiera, abbiamo venduto 20.000 gomme nere negli USA e girano ancora adesso, si chiamano Grifo, 24 pollici.
        C’e’ una grossa differenza di mentalita’ tra noi europei e gli americani, e i buyers “ammerigani” lo sanno benissimo e ci bagnano anche il naso nel marketing. Col vino fanno la stessa cosa. Se non sei un nome gia’ superfamoso da copertina oppure non hai in gamma anche una riserva superpuzzolente di legno, non passi. Magari poi quella serve soltanto per farsi avere un punteggio astronomico dal pennivendolo di turno, ma intanto in Italia qualche faidate crede che sia quella la vera chiave per entrare negli USA e si mette ad abusare dei legni senza nemmeno sapere cosa fa. Questo intendevo dire. In piu’ ti aggiungo una chicca personale, visto che sei della mia generazione anche se hai un nick anonimo ed ed giusto che tu sappia com’e’ finita per l’8 e mezzo. Ho assistito allo smantellamento di quella linea d’inlattinamento della Giacobazzi, dopo qualche anno di produzione sempre piu’ problematica e qualche altro anno di ragnatele. E la Giacobazzi e’ pure fallita. Poi e’ saltata fuori la Paris Hilton, un’altra bonazza “ammerrigana”, col Prosecco in lattina. La mamma degli stupidi, dunque, e’ sempre incinta. Anche per i succhi di falegnameria.

  10. Ora bisognerà dirlo ai cugini francesi, che se si ostinano a produrre sempre e solo vini da vitigni autoctoni, su scala non nazionale ma addiritura regionale, e una bottiglia di Cabernet della Borgogna non la faranno MAI, per quanto possa risultare buono, finiranno per farci la figura degli pseudoduristi… :-D

  11. Tra “nemmeno” e “cosa”, nel mio intervento precendente, manca il verbo sapere. Scusate, scrivo sempre di getto e a volte mi bevo non soltanto il vino, ma anche le parole. Se qualcuno potesse correggere sarebbe meglio, grazie.

  12. Scusate, cosa significa “restazzuolo”?

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