di Mauro Erro
La prima soluzione idroalcolica che ho bevuto con una certa continuità e con il consenso di mio padre, allora necessario, è stato il Caffè Borghetti. Avevo dieci anni, il Napoli calcio aveva conquistato il suo primo scudetto ed io ero entrato a far parte di quell’esclusivo club di maschi adulti che si recavano la domenica mattina allo stadio San Paolo. Ne facevano parte zii, cugini, amici, tutti coloro che stazionavano dalle parti di via Pietro Castellino, dove sono nato e cresciuto, e che frequentavano il salone del barbiere che si trova proprio all’inizio della strada.
Veniva anche Pino, il ragazzo del barbiere, che aveva cinquant’anni e pochi capelli in testa e che per me, che a quell’epoca non avevo ben chiaro il concetto di “ragazzo” del barbiere, rappresentava un personaggio misterioso. Don Carlo, il barbiere vero e proprio, invece, allo stadio non ci veniva perché diceva che ormai era troppo vecchio, per cui trascorreva la domenica attaccato alla radiolina ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto, piazzandosi poi davanti al televisore per vedere le prime immagini dai campi. Il lunedì, nonostante il canonico giorno di chiusura dei barbieri, Don Carlo apriva nel pomeriggio il suo salone e tra i poster di Maradona, Krol, Beppe Bruscolotti, modelli dalle folti chiome e procaci signore con il seno nudo e in bella mostra, il gruppo si radunava per i commenti sorretti da un attento studio delle pagine del Corriere dello Sport e de Il Mattino.
Alla “Rosa”, giornale di Milano, si guardava con una certa diffidenza. Non sempre ero ammesso al dibattito, mai avevo diritto di parola ed in generale si può dire che la maggior parte delle volte, nonostante fossi entrato nel club di quelli che andavano allo stadio, la mia presenza fosse appena tollerata, ma è altrettanto vero che dopo un po’ di tempo, quando i discorsi si facevano fumosi come l’ambiente dopo le innumerevoli sigarette accese, la mia attenzione fosse rapita dalle immagini attaccate alle pareti dei giocatori che avevano militato nel Napoli ed io non avevo visto giocare. Il mio sguardo andava dagli abnormi polpacci di Omar Sivori che spuntavano dai calzettoni abbassati alle zizze di una dolce signora bionda che mi sorrideva senza che io sapessi il motivo.
Il momento del Caffè Borghetti veniva subito dopo il pranzo, che era la marenna, consumata sugli spalti della curva b mentre si confrontavano ansie e pronostici. In primavera e d’estate si facevano largo tonno e pomodoro, una fresca caprese o in sostituzione una frittata di maccheroni. Agli inizi di campionato era il turno della parmigiana di melanzane, più in là, il classicissimo salsiccia e friarielli. A me che ero il più piccolo toccava la frusta, che è come la baguette francese, spezzata in due porzioni. Lo sfilatino o marsigliese lo avevano i ragazzi o le persone più anziane. Il mezzo palatone di pane dalle inimmaginabili dimensioni di Priapo, svuotato della sua mollica e riempito con i migliori pezzi del ragù (salsiccia, gallinella e braciola in abbondante sugo) con l’aggiunta di melanzane o friarielli, era il simbolo del maschio dominante del gruppo nel pieno delle sue forze: per affrontarla occorrevano stomaco solido e denti sanissimi.
Il tutto veniva innaffiato da Gragnano travasato in bottiglie di plastica, Asprinio d’Aversa spacciato per autentico, Montepulciano vinificato da qualche amico. Questo avveniva fin quando c’era la complicità della polizia che non vedendo alcun pericolo in questa combriccola di zii, nipoti, papà e amici, lasciava passare le bottiglie senza privarle del tappo durante le perquisizioni agli ingressi. Quando quel tipo di complicità veniva a mancare ci si affidava ai venditori ufficiali e agli ambulanti che con una tinozza attraversavano le gradinate con passo svelto, gridando abbastanza da farsi sentire, ma non da farsi sentire troppo “Acqua, Coca Cola, Caffè Borghetti…”
E poi, il rito del Caffè Borghetti a mo’ di digestivo arrivava. Rito che poteva ripetersi nell’arco della partita e a cui anch’io ero ammesso. La mia dose era metà boccetta, nelle domeniche più fredde potevo ingurgitare la boccetta intera di quello strano miscuglio di caffè, acqua, zucchero e alcol. Non che ce ne fosse veramente bisogno (cfr. Così parlò Bellavista, Luciano De Crescenzo, 1984: “San Gennà, non ti crucciare, tu lo sai, ti voglio bene, ma ‘na finta ‘e Maradona squaglia ‘o sanghe dint’ ‘e vvene!”), era semplicemente una di quelle cose che si fanno insieme per il piacere di farle e basta.
Ovviamente il godimento non stava nel sapore del caffè con cui all’epoca non avevo dimestichezza. Il bello è che non avevo bisogno di rubare qualche mignon di liquore dalla collezione di mio padre per provare la trasgressione dell’alcol. Il bello è che se avessi buttato giù i 3 cl di Caffè Borghetti tutto di un fiato ci sarebbero stati incitamenti e ululati, che alle parolacce più volgari, agli insulti più fantasiosi all’arbitro, al commento più becero sul bel culo della ragazza che avevamo di fianco, tutti avrebbero riso grassamente e nessuno avrebbe risposto sgridando “C’ sta ‘o criaturo!”.
in contemporanea con Enogea n.46