Ossessione e passione – un pensiero su Max Cole

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 di Armando Castagno

“You the spirit who resides everywhere
who remakes the silent stones to speak again,
I have come to question you”.
(Canto Cherokee)

Ho deciso che avrei scritto qualcosa sul lavoro di Max Cole la prima volta che ho visto dal vivo una sua opera. Fu a Villa Menafoglio Litta Panza, a Varese, quasi tre anni fa; ero giunto alla Villa in perfetta solitudine una assolata domenica mattina di luglio. Arrivai impreparato; ne avevo letto su un libro di Giuseppe Panza di Biumo, ma non ricordavo nemmeno, confesso, che Max Cole fosse una donna. Avevo da poco appreso che i capolavori di Rothko, Rauschemberg, Kline, Lichtenstein, Oldenburg, Beuys e Fautrier erano ormai emigrati dal patrimonio del grandissimo collezionista italiano sopra citato verso il MOCA di Los Angeles, dopo essere stati offerti invano alle istituzioni nazionali a un dodicesimo del loro valore, oggi stratosferico. Così, ero arrivato per altro, comunque per me entusiasmante: avrei provato l’immersione nelle stanze al neon di Dan Flavin, osservato da vicino i dipinti monocromi di maestri come David Simpson, Ettore Spalletti e Ruth Ann Fredenthal, il pigmento puro di Alfonso Fratteggiani Bianchi, le composizioni drammatiche e gigantesche di Ford Beckman, le nosocomiali architetture d’interni di Robert Irwin con le finestre senza vetri su un panorama ad ogni minuto cangiante, le stanze vuote di James Turrell, illuminate da fendenti di luce, che sperimentai capaci di evocare visioni dal candore. Più limpidamente di qualsiasi altra cosa, portai però con me andando via il ricordo dei quadri di Max Cole.

“E’ stata mia intenzione togliere dalla pittura gli aspetti non essenziali al contenuto” – ha scritto di sé la Cole pescando nella memoria. In effetti è andata così: le sue opere vivono in contumacia del colore, sostituito da una finezza tonale cui quasi non si fa caso; latitano la forma materiale, l’oggetto, la simbologia, l’imitazione del riconoscibile; tutto fugge via in un baratro matematico il cui senso si allontana da noi che guardiamo come per effetto Doppler; cosa ci resta da afferrare?

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Resta l’essenziale: tracce del lavoro e del pensiero, reticolari e minuziose, una trama fatta di spesse linee orizzontali solcate da fibre di scrittura verticale, ravvicinate, in numero vertiginoso, come le conte infinite dei giorni incise sui muri delle carceri; e la reiterazione di un unico gesto svela la tremula imperfezione della mano umana, talché nessuna linea è parallela a un’altra; nell’avvicinarsi di tutto a tutto, il garbuglio prende a palpitare. Pochi passi indietro, e la frenetica agitazione dell’organismo si muta in suono: la successione di trattini imprecisi, sconcertanti nella loro inutilità, si trasforma a distanza in una composizione monumentale e ipnotica, satura di spiritualità solenne. Tutto sembra vibrare lungo le linee dello sguardo, l’occhio percorre su e giù le direttrici, e il quadro pare intenzionato ad entrare in risonanza con la nostra mente, tentando l’aggancio con segnali magnetici, treni di onde sismiche, strani scricchiolii ipogei, e aspettando la risposta.

Il primo quadro che vidi era bianco e grigio, il secondo blu notte e nero, spettacoloso; li ricordo come fosse ieri. Tutti e due avevano la stessa postura rituale, la stessa disciplina algebrica, un’identica impalcatura di miriadi di segni disposti nel modo che s’è detto, a decine di migliaia. Non c’è dubbio che siano quadri a forte assetto orizzontale, ed è stato notato che l’artista è nata e cresciuta in un contesto – il Kansas – il cui panorama è pressoché interamente disegnato a orizzonti sovrapposti; ma l’equilibrio di queste opere, e come diceva Giuseppe Panza la inesauribile “forza di attrazione” che lo aveva persuaso a comprarle, derivano dal contrapporsi di spinte orizzontali (le bande tonali, le linee grasse, la forma stessa della tela) e verticali (i trattini ortogonali). Del resto, movimenti spiritualistici e antroposofici, compresa la biodinamica “steineriana” ortodossa, fondano la loro visione del mondo sulla contrapposizione di forze verticali e orizzontali, ispirando in arte, ad esempio per la “predicazione” di Schoenmakers (teosofo, ma prima ancora matematico), il levarsi di movimenti fondamentali come il neoplasticismo di Piet Mondrian, Theo van Doesburg e Cornelis van Eesteren.

Può sembrare dunque di vedere Max Cole intenta, da e per chissà quanto tempo, a questo lavoro apparentemente insensato, ma vigoroso e determinato, sorretto – è evidente – da motivazioni interiori fortissime, sebbene di matrice metafisica; e osservarla procedere fino a concentrarsi solo sull’opera, tracciando in essa la distanza tra la determinazione e la compulsione, la differenza tra la passione e l’ossessione, l’abisso che divide l’elaborazione, per quanto complessa, di un concetto, e la paranoia.

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Il significato spirituale del fare, e del fare ancora, meccanicamente, all’infinito, una piccola cosa alla volta, ha ascendenze altissime. Osservando la struttura dei segni perpendicolari di Max Cole e tenendo in mente il suo lavoro febbrile, sovvengono l’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza, la “realtà ortogonale” di Wittgenstein, le biblioteche di Borges, le grate cartesiane di Mondrian, gli incroci di Klee e Moholy-Nagy, i valori lineari e mistici di Reinhardt, Rothko e Barnett Newman, le scansioni assiali di Ben Nicholson; per non parlare della citazione martellante di questo assetto in architettura, specie nell’architettura razionalista – e non è un caso che siano quadri di Max Cole ad assecondare, appesi ai muri, gli interni della casa-museo di Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus, a Berlino (colui che ha detto tra l’altro, in senso dispregiativo: “La forma come scopo porta sempre al formalismo”). Di diverso, rispetto al lavoro dei colossi citati, c’è però al tirar delle somme la finalità etica del quadro, uno spazio tanto regolarmente scandito quanto intriso di religiosità, il risultato formale astratto di una sfacchinata concreta.

Questo trionfo dell’umiltà non è solo rappresentato dalle opere ma sembra essere da loro indicato come destinazione più alta degli aneliti umani, nella sistematica, cieca, sorda e muta esaltazione di una fatica surrealmente autoinflitta da una donna che pare sentirsi una pedina; l’idea può sembrare radicalmente “antiumanistica” e il ruolo della figura umana nel mondo persino mortificante, eppure si riesce a rendere, senza proferire parola, la drammatica, sensazionale bellezza di ciò che è irraggiungibile. Ed è pensando questo mentre li si guarda da vicino, che i quadri di Max Cole risplendono del loro vero colore, che è il silenzio.

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Max Cole è nata nel 1937 a Hodgeman County, Kansas, Stati Uniti, da famiglia per metà di antica stirpe Cherokee. Ha iniziato a esporre negli Stati Uniti dall’inizio degli anni Sessanta. Sue opere fanno parte di alcune delle più grandi collezioni del mondo, come il Metropolitan Museum e il MOMA di New York, il Los Angeles County Museum of Art, la Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, la Collezione Panza di Biumo in Villa Menafoglio Litta Panza a Varese, le Gallerie di Arte Moderna di Wuppertal, Ingolstadt, Colonia e Monaco di Baviera e la casa di Mies Van der Rohe a Berlino.

Photos appear courtesy kunstgaleriebonn – all rights reserved / tutti i diritti riservati.

17 Responses to “Ossessione e passione – un pensiero su Max Cole”

  1. Testo mirabile e opere evocative, ipnotizzanti anche solo in riproduzione fotografica. Ora non resta che andare a vedere i quadri dal vivo (personalmente dovrò escludere per il momento una trasferta a Buffalo)

  2. Scrivi come un pittore, un pittore credente.

  3. non so perchè, ma il naso va a david foster wallace.

  4. Grazie.

  5. Io, invece, non so perchè. E basta. Grazie, Armando. Tanta roba, direbbe uno un po’ meno aggraziato di me; e dunque non posso dirlo.

  6. Mi sento come quel personaggio di “Quelli della notte” che diceva “non lo capisco, ma mi adeguo”.
    Sinceramente non capisco.
    Eppure ci sono artisti contemporanei che mi emozionano, per esempio Enzo Cucchi, non sono insensibile all’arte contemporanea.
    Ma qui, almeno con le sole foto, non è scattato niente.

    Ma perchè te lo dico?
    Perché il tuo pezzo è comunque bellissimo.

  7. Il de-scrivente è magnifico, ma per la mia somma ignoranza si colloca agli antipodi dell’oggeto descritto. Il quale è il risultato di numerose sottrazioni. Incompiute, a mio avviso.

  8. …e dopo la bourgogne, dopo questo tipo di arte contemporanea ora mi aspetto solo pezzi siffatti su Patek Phlippe & Co !

  9. Quando la critica è davvero intima e profondamente sentita, l’opera da (s)oggetto artistico ritorna ad essere materia prima, quindi il suo valore rifuso e trasfigurato dentro la cosa nuova che essa diventa.

    Così (persino) una persiana brinata e una pezza di stoffa per camicie possono diventare pagine di alta espressione umana, intellettuale ed emotiva, attingendo ad un valore che prima dell’atto creativo e riformulativo del critico quegli oggetti (o mere raffigurazioni di essi) non conoscevano in alcun modo… :-P

    Parlando (ancora) seriamente, leggendo oggi la tua pagina a spizzichi e bocconi, durante i vari momenti e sotto le diverse luci della giornata, ho avuto la sensazione che tu abbia ad un certo punto voluto passare a volo radentissimo sopra l’arte della degustazione del vino. Domani in un nuovo spizzico di alterazione rubato alla giornata riuscirò a ritrovare il passaggio per indicarlo e poterne parlare nel dettaglio.

    Ora che invece ho il tempo di rileggere tutto insieme, non ne ho però le forze, piegate dall’alcool dell’ennesimo banco d’assaggio milanese e dall’oretta degli ormai per lo più fatiscenti mezzi ferroviari lombardi necessaria per tornare a casa senza rischiare di buttare via la patente. Prima di andarmene finalmente a dormire mi rimane giusto l’avanzo necessario ad evocare il fantasma di “π – Il teorema del delirio”, il filmetto di Darren Aronofsky che do per certo tu abbia visto e rivisto. Magari non ci azzecca preciso preciso, ma il centro di gravità psichico è il medesimo.

  10. Non è una excusatio non petita, ma un dettaglio tecnico, ed è la sola cosa che mi sento di aggiungere dopo aver ringraziato tutti coloro che hanno scritto, qualsiasi cosa abbiano scritto, anche voci di perplessità. I quadri di questa artista, dato comune ad almeno altri due presenti – o meglio: superstiti – nella Collezione Panza, e cioè Phil Sims e soprattutto David Simpson, sono praticamente infotografabili. Non rendono nulla in foto, non c’è foto che renda loro giustizia. Ma ecco, il pezzo intendeva essere un piccolo stimolo ad andare a vedere. E ora io, da autore, come raccomandava di fare Huysmans, sparisco.

  11. Se qualcuno si fosse posto mai il quesito sulla possibilità che le righe o, più in generale, le forme gemotriche potessero avere degli effetti magnetici o vorticiosi sul osservatore e fosse rimasto senza adeguata risposta potrebbe riuscire a trovarla con queste opere.
    Rapiscono lo sguardo e creano curiosità.
    Credo che quando un’opera, di qualsiasi genere e natura essa sia, riesce a togliere il fiato, a rapire lo sguardo, a squotere energicamente la mente sia una grande opera.
    Ogni volta che sento e vivo l’agitazione e l’eccitazione delle mie cellule cellebrali grazie ad un opera artistica, sento di aver contratto un debito di riconoscenza.
    Le foto, come sottolinea Armando, potranno anche non rendere giustizia alle opere ma insieme al racconto mi fanno sentire ancora una volta debitore.
    Dengu

  12. “Il significato spirituale del fare, e del fare ancora, meccanicamente, all’infinito, una piccola cosa alla volta, ha ascendenze altissime.[…]”

    Ciao Armando.
    C’è un punto di fuga nelle opere della Cole? Te lo chiedo perché leggendo di verticalità, orizzontalità, insomma, di principi compositivi geometrici, mi è venuta subito in mente l’invenzione della prospettiva lineare da parte degli umanisti fiorentini e nello specifico del Brunelleschi.
    Anche quello un meccanismo, che dà infinita e, aggiungiiamo, fittizia, certo nel senso di creata ad arte, profondità al quadro.

    • Ciao Francesco. Mah. Ho trovato che i quadri di Max Cole trascinino l’attenzione in orizzontale, lungo la superficie, piuttosto che in profondità. A differenza di Rothko o Reinhardt. Vibrano di più, attirano di meno.

  13. Armando ciao sono Agnieszka….
    ho letto per caso l’articolo non conoscevo neanche la Cole,ti dico grazie per avermi reso più serena e appagata.
    I like it++++

  14. Sono un collezionista di Max Cole. Il suo lavoro e’ minimo e massimo. La sua umilta’ e’ la chiave della sua arte, ed e’ pura trascendenza. Arte tutt’altro facile, ma questo non e’ cosi’ importante. Federico

    • Gentilissimo Federico,
      cerco da qualche tempo di avvicinarmi ad un’opera -piccola, nelle dimensioni – di Max Cole. Non riesco, purtroppo, a trovare riferimenti. Nella mia città, Verona, la Galleria Studio – La città possiede un solo lavoro, ma grande.
      Riesce a darmi qualche indirizzo in Italia?
      Se lo riterrà opportuno, potrà contattarmi all’indirizzo m.febo@sanzeno.org

      La ringrazio per quanto potrà fare.
      Marco Febo

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