L’Inferno è una questione di fede

Bernardo di Chiaravalle

di Armando Castagno

(da ViniPlus di Lombardia n. 7 – Ottobre 2014)

“Le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”
Bernardo di Chiaravalle

Ricevuti in testa diluvi d’acqua nelle due trasferte oltrepadane servite a buttar giù il pezzo sul “Buttafuoco”, stavolta ho atteso direttamente l’arca di Noè alla fermata di Poggiridenti, in Valtellina, nel luglio più piovoso dal paleozoico, e mi accorgo che vado preparando un pezzo su un vino che si chiama “Inferno”. Acqua spegne Fuoco, come in una morra cinese. Forse dovrei cambiare tema, o magari portarmi un ombrello, come del resto mi era stato raccomandato di fare.

Alzo gli occhi poco prima di tornarmene indietro, e vedo un’ultima volta queste balze inconcepibili, arrampicate una sopra l’altra come se l’una dall’altra fossero germogliate, collegate alle poche strade dagli “tzapèl” di pietra, malferme scalinate senza appoggio per le mani. Uno scenario così sarebbe assurdo anche pensandolo all’interno di un plastico; e il calcolo di quante schiene di quante generazioni, quanta immane fatica e quanta fede incrollabile possa essere costata la trasformazione di un contesto duro e pietroso come quello del versante retico della Valtellina in una terra da vino – per quanto poco il vino sia – mi pare inutile, vertiginoso; commovente, però, devo ammetterlo.

Arrivo da Lecco: risalgo il corso dell’Adda che scorre in fondo alla valle, e le sottozone del disciplinare si susseguono alla mia sinistra alternandosi alle vigne del “semplice” Valtellina Superiore, alcune delle quali veramente splendide; per prima la minuscola Maroggia, in cui le minime pezze di vigneto sembrano radure isolate nel bosco più profondo. Poi le tre di più salda nomea, una a fianco all’altra sopra Sondrio e immediati dintorni. Le spaventose muraglie verticali della Sassella precedono l’erta scoscesa del Grumello, aggettante dal fianco del versante principale e culminante con il rudere afflosciato del castello, il quale appare però più fotogenico di come sarebbe se fosse rimasto intero. E infine, procedendo ancora verso Est e prima di arrivare alla più distante Valgella, ecco finalmente le terrazze dell’Inferno, con le loro serpeggianti stradine d’ascensione, le sue vigne più morbide in basso, via via più scoscese salendo, fino a far scuotere la testa osservando alcuni punti dall’orlo superiore dei filari; di infernale, mi si dice, ci sono il microclima caldo, per via del riflesso delle pietre sulle piante, e la sostanziale impossibilità a lavorare comodamente – conosco peraltro chi di infernale avrebbe una terza cosa qui, le vertigini.

L’Inferno è lastricato di buone intenzioni, si dice, e d’accordo; ma anche di pietra, almeno questo; e spesso le rupi irrompono in superficie e ne fuoriescono come in una frattura esposta; ho misurato non più di 45 centimetri di humus in una vigna a forte pendenza posta al centro della sottozona, e mi hanno detto che c’è di peggio. In alto ce n’è ancora meno, per effetto di un dilavamento che osservando il luogo appare inevitabile, prologo ad un faticoso riporto della terra dalla costa bassa alla costa media e a quella alta; in basso se ne trova un po’ di più, fino ad una zona che sarebbe considerata impervia ovunque, ma che qui, passandosi il termine, chiamano “Paradiso”. Scendendo ancora, uscendo dalla sottozona, ci sono persino alcuni filari atti alla raccolta meccanizzata: eppure, non sono in piano neppure loro.

L’Inferno propriamente detto si estende in orizzontale dal torrente Davaglione, sotto Ponte Prada (comune di Montagna in Valtellina) fino a Tresivio, circa 3,1 km a oriente; la fascia interessata ha peraltro uno spessore risibile, inferiore ai 350 metri in linea d’aria. Vi si reperiscono ad oggi circa 60 ettari effettivamente vitati, per una produzione, va da sé, limitata: si tratta della più piccola delle zone storiche della valle. Da Ovest a Est, è possibile dividerla in ulteriori microaree, ciascuna con il suo nome e la sua fama: Ca’ da Rùnsc, al confine col Grumello; Grisc di Sassìna, o Sassìna, proprio a fianco; con le vigne della contrada Conforti (Cunfòrt) ci si avvicina alla zona centrale, il “cuore” dell’Inferno, dove non c’è Lucifero ma le vigne a rittochino ai lati di una strada zigzagante che sale da Poggiridenti Piano a Poggiridenti; e infine il Calvario, ormai in vista di Tresivio, nome che come diverse altre zone dell’estremo Nord d’Italia identifica un’altura vitata con Santuario (o Monastero) in cima, le cui vigne tipicamente sono state create e curate dai religiosi – ad esempio, c’è un “Calvario” in Val d’Ossola dalla struttura quasi identica. La raccolta delle uve e il loro trasporto in cantina va dal complicato al funambolico, con riflessi circensi: i 28 euro che costa al minuto l’affitto di un elicottero per il trasporto a valle delle gerle colme di uva sono molto meno di quanto costerebbe la necessaria squadra di vendemmiatori, forzata, come in passato chissà in quanti hanno fatto, a procedere in discesa con il carico in spalla lungo tornanti talmente stretti che per percorrere quelli che in linea d’aria sono meno di 500 metri servono 3,3 km misurati di strada; e poi c’è da tornare su. E ricominciare.

A scorrere la sguarnita letteratura enoica sul tema, almeno i vini delle tre sottozone centrali (Sassella, Grumello e Inferno) hanno una fisionomia aneddotica precisa: più “classici” e “complessi” quelli della Sassella, più “delicati” i Valtellina del Grumello, più “pronti” e “caldi” quelli dell’Inferno, ed in effetti la distinzione, sebbene imprecisa come tutte le generalizzazioni, ha il suo perché. Tuttavia, la collocazione su una costa bassa, mediana o alta ha almeno tanta importanza nella fisionomia dei Valtellina da sottozona che l’appartenenza a uno dei distretti normati appena ricordati; una classificazione “verticale”, insomma, che conta quanto quella orizzontale e forse persino di più, ma che non trova riscontro sulle etichette, anche perché quasi sempre i vini vengono ottenuti dal blend di diverse minuscole vignette all’interno delle varie sottozone, e ad essi contribuiscono spesso i conferimenti di contadini che non vinificano né imbottigliano in proprio.

Il terreno, come detto, è durissimo, sia in senso metaforico che materiale: in tutta la Valtellina centrale, ovviamente solo sul versante coltivabile, che è quello “retico”, cioè quello che guarda Sud, la matrice geologica è una e coerente. La pietra grigia, ora scistosa ora a blocchi squadrati davvero impressionanti, localmente di colore grigio-bluastra, ocracea, o di un avana chiaro punteggiato di nero, è lo “gneiss”, ovvero quanto derivato dal compattamento nei millenni di masse di granito, diorite o entrambe le pietre originarie, dette “protoliti”. Il Nebbiolo-Chiavennasca ci si trova a meraviglia (anche il Picutèner: a Carema, Donnas, Arnad-Montjovet), andando a incuneare le sue radici negli interstizi e nelle fratture della roccia, che sono numerose e profonde; di conseguenza, questo sottosuolo, pure di una consistenza sconcertante, drena benissimo, persino troppo visto che bastano in Valtellina due o tre settimane senza pioggia per esporre al rischio di stress idrico considerevoli estensioni di vigna.

A corredo del nostro breve servizio sull’areale, abbiamo pensato di ripercorrere in verticale la vicenda di uno dei più interessanti vini della sottozona “Inferno”. Si tratta della Riserva di Aldo Rainoldi, un rosso uscito negli anni ottanta e novanta con il termine “barrique” in bella evidenza, e maturato in effetti in legno piccolo. Da sempre chi scrive considera questo come uno dei migliori esempi disponibili di Nebbiolo “modernista”, proprio perché, a patto che non lo si consumi troppo giovane, sa svincolarsi abbastanza presto dal velo dolce dei legni piccoli, per liberare poi il patrimonio aromatico emozionante che la sinergia di vitigno e territorio sono in grado di sintetizzare in Valtellina.

L’azienda ha tanta storia: sorta a metà degli anni Venti per iniziativa del fondatore di cui porta il nome, un Aldo Rainoldi figlio di un Giuseppe, commercianti entrambi in vino e prodotti agricoli tra Italia e Svizzera, ha visto da allora alternarsi padri e figli, e quindi un Aldo a un Giuseppe, e siamo alla quarta generazione. Rainoldi, come cantina, è stata premiata sulle tre principali guide nazionali quasi esclusivamente per il suo Sforzato (21 premi su 22), e mai salvo una sola eccezione per i suoi strepitosi Sassella, Grumello o Inferno Riserva.

Pur nel rispetto dell’opinione di chiunque, riteniamo questa una scelta fuorviante e banale – seppure, constatiamo, plebiscitaria – la quale ha lasciato nell’ombra per decenni un tesoro come i Valtellina Superiore, sbalorditivi riassunti ambientali, splendidi da bere sebbene di ragguardevole complessità, longevi oltre ogni dire, parto delle più belle vigne del luogo e, quel che più conta, adatti ad accompagnare la gastronomia locale – salvo che non si prendano in esame come esempi di “gastronomia” forme di Bitto di 15 anni – come nessuno Sforzato. Da un patrimonio di circa 7 ettari di proprietà, più circa 2,6 in conduzione, si ottengono da Rainoldi 16 etichette per un totale di circa 200.000 bottiglie.

Le Riserve dalle principali sottozone valtellinesi sono peraltro in “tiratura” limitata; l’archivio storico delle relative bottiglie è in un locale che porta l’ineffabile nome di “Farmacia dei sani”. Il Valtellina Superiore Inferno Riserva arriva da vigneti differenti, a coprire quasi tutto l’areale dell’Inferno da Ovest a Est, molti in proprietà, qualcuno di conferitore accortamente indirizzato a livello agronomico. Le altitudini dei terrazzamenti interessati vanno dai 320 ai 500 metri slm, e mentre i vecchi impianti, con esemplari anche di 70/80 anni, sono allevati ad archetto valtellinese e con densità non superiore ai 3000 ceppi per ettaro, i nuovi sono a Guyot, a 4500 piante/ettaro. La raccolta è ovviamente tutta manuale, la vinificazione avviene in fermentini di acciaio con macerazione di circa 10 giorni; il vino è indotto a svolgere la fermentazione malolattica subito dopo quella alcolica, ed è quindi stabile prima di metà marzo, quando viene trasferito in barrique francesi nuove. La maturazione dura circa 15 mesi, segue affinamento in bottiglia che da qualche anno si è fatto, diremmo giustamente, piuttosto prolungato (fino a due anni). Ne vengono prodotte circa 15/18.000 bottiglie.

NOTA – L’autore intende ringraziare “Peppino” Rainoldi e il suo intero staff aziendale per la calorosa accoglienza; il delegato Ais di Como Giorgio Rinaldi per l’amichevole assistenza, durata quanto l’approntamento del servizio; il delegato Ais di Sondrio Elia Bolandrini ed Armando Lanzetti per aver condiviso le proprie impressioni sui vini durante le varie sessioni d’assaggio, il direttore di ViniPlus di Lombardia Alessandro Franceschini ied il presidente regionale AIS Fiorenzo Detti per aver ecconsentito alla pubblicazione di questo servizio.

 

 

La degustazione
Valtellina Superiore Inferno Riserva 2010-1959 Aldo Rainoldi

Riserva 2010
Rubino lieve, trasparente, riflessi rosa antico e indaco. Naso laccato e dolce; si avverte il lascito dei legni di maturazione, che non riescono però a velare il suo piccolo prodigio aromatico di erbe officinali, menta, fragola, e una eclatante rosa. L’assaggio rivela un vino acidissimo, ma con una qualità notevole in questa sua componente, che irrora letteralmente la bocca; con una autentica complessità ancora in costruzione, il vino punta oggi su una scattante nervosità. Finale agrumato, con ritorno di note speziate dolci.

Riserva 2009
Più compatto e colorato del 2010, ma sempre di perfetta trasparenza. Dal lato olfattivo è in leggera riduzione (tre bottiglie assaggiate); col passare dei minuti il profilo si schiarisce, svelando una dotazione fruttata cospicua, integra e succosa, simile nel profumo al “jam” di ciliegia, poi melagrana, terra, fiori rosa, fragola selvatica. Splendida bocca, completa, diffusa; eccellente qualità dei tannini per grana e sapore, infiltrante freschezza finale: anche per via della matrice salina del finale, il vino sfuma lunghissimo e puro.

Riserva 2007
Forse il più chiaro dei diciotto: è rubino lieve con unghia corallo. Naso da Chambolle-Musigny giovane: olografica nota di anguria e melagrana, rosolio, spezie orientali come l’incenso, confetto, rosa bianca, e una rabbiosa nota di sale iodato e calcare: convivono in questa meraviglia di bouquet aspetti molto diversi, ma accomunati da una grazia spirituale. All’assaggio rivela due anime: una calda ed estroversa (l’alcol dell’ingresso non è timido), l’altra fresca e quasi cruda, in un contesto privo di zavorre estrattive o tanniche, fino alla sintesi floreale e agrumata dell’epilogo, di media estensione ma di ipnotica bellezza.

Riserva 2005
Subito a lato del più chiaro, ecco il più scuro: materia realmente di insolita densità per vitigno e provenienza. Naso in ottima forma; la nuance salmastra è la prima che si coglie, poi qualcosa di piccante, il rovere ancora piuttosto presente, liquirizia e una bellissima viola; sarà alla fine l’unico profilo aromatico della verticale a poter autorizzare, alla cieca, l’indicazione di questo rosso come un Nebbiolo di Langa. Al palato, il contegno è diverso: è meno generoso e aperto, il tannino si fa sentire, il finale risulta un poco semplificato sia in varietà, sia in estensione.

Riserva 2004
Da un’annata poco considerata, una delle più belle sorprese della degustazione. Il colore è un rubino sostenuto e trasparente, che di granato ha solo qualche barbaglio; e il naso è splendido, con la sua apertura resinosa e agrumata, le sue sfumature di pesca, peperoncino, aloe, il suo originale flusso minerale che ricorda l’odore dei fanghi termali. Di sdolcinature legnose, nemmeno una traccia. Bocca acida e persino aspra, ma coordinata, succosa, espressiva; la persistenza ha classe, è misurata e coerente, ed esalta la dotazione salina. Gran bottiglia davvero, forse al suo apice evolutivo.

Riserva 2002
Granato trasparente e ricco di riflessi, dal rubino del cuore all’arancio brillante dell’unghia. Naso piuttosto “avanti” nell’evoluzione; si percepiscono un tocco di ruggine e un indizio di sottobosco fresco (felce, terra smossa, pietra umida) oltre alle note floreali d’ordinanza. Il sorso va a zigzag: entra baldanzoso ma frena subito dopo, evidenziando diluizione nella pausa che si prende a centro bocca; poi si stende su toni di sasso di fiume e salsedine verso un’uscita sguarnita di ritorni ma interessante dal lato tattile. Giudizio complessivo non positivo come la salda fama dei 2002 valtellinesi avrebbe lasciato sperare.

Riserva 2001
Granato chiaro; il centro del calice ha un evidente riflesso rubino. Naso originale e complesso: terra battuta e resina ne chiariscono subito l’ambientazione boschiva; mantiene una limpida nota di fiori rosa, ed è così intensamente minerale da suggerire descrittori legati ai metalli. Bocca in tutto convincente, elegante e fresca, dalla guizzante acidità eppure larga e generosa di ritorni retrolfattivi nella sua lunghissima uscita. Controcanto del 2004 nel tema delle annate scarsamente celebrate ma alla resa dei conti capaci di riuscite lusinghiere.

Riserva 2000
Manto lieve come quello di un Chiaretto, unghia arancio brillante. Naso di avvolgente estroversione, balsamico di anice, liquirizia ed erbe alpine, con qualche nuance floreale e di agrume amaro; al palato attacca morbido, e a dirla tutta morbido prosegue; il tannino è virtualmente eclissato, la freschezza calibrata e mai aggressiva, la persistenza misurata e dalla voce flebile; l’esito finale, come in molti casi nel Nord Italia in questa vendemmia, è un vino di medio corpo e inadeguata “presenza scenica”.

Riserva 1999
Granato acceso di una certa consistenza. Fiabesco bouquet di delirante qualità, vastissimo e imprevedibile, dalla mela rossa al cardamomo, dalla prugna fresca all’arancia rossa, ai chiodi di garofano, al rabarbaro, poi china, felce, sale, metallo. Splendida anche la bocca, saettante e minerale, dai tannini minuti e pungenti e dalla freschezza debordante; enfasi sulle durezze sottolineata dall’uscita al sapore di mela aspra, tutt’altro che spiacevole, e in assoluto tra le due o tre più sapide della verticale. Qui, nessuna sorpresa: il millesimo è a giusta ragione considerato storico in zona, ed ha regalato un buon numero di bottiglie di questo straordinario livello.

Riserva 1997
Granato caldo privo di unghia e naso inconsueto, fragrante di lieviti e pane di segale, in cui si coglie anche un accento “acciugoso” e un che di erbaceo fresco; col passare del tempo il tutto si acquieta, aprendo a rimandi sempre in parte stravaganti ma più carnosi e concreti, di caramello caldo, asfalto, rabarbaro e l’immancabile rosa. Molto saporoso all’assaggio, nonostante una struttura fatta agile e leggera dalla tambureggiante “sezione ritmica” di acidi e sali; pregevole coordinazione generale e lirica uscita alla rosa tea. Pur senza far strappare i capelli, è uno dei migliori 1997 da Nebbiolo che ci sia capitato di assaggiare; in effetti, quasi tutte le altre grandi bottiglie di Nebbiolo del millesimo venivano dalla Valtellina.

Riserva 1995
Manto granato vivo. Nota di testa nettamente marina: alghe, salsedine e ostriche, a fianco di un aspetto più torvo di cuoio e liquido di concia; filtra qualcos’altro – non molto – nelle due ore passate col naso sul bicchiere (fiore amaro, arancia, chiodo di garofano). Palato tenace, freschissimo, ancora condizionato nello sviluppo dalla stretta del gran tannino; sostanza e grinta accompagnano l’intero sviluppo, che si esaurisce su note minerali e speziate di notevole potenza. Vino d’acciaio, da quella che oggi si può serenamente archiviare come grande annata, diversa tuttavia dalla 1997 cui fu, inizialmente, posposta: viene da dire che dove si “fermano” i 1997 valtellinesi, i 1995 iniziano – salvo le ovvie eccezioni. Ma il profilo è più robusto, più saldo.

Barrique 1994
Granato chiaro e netto. Bouquet di limitata varietà: cogliamo mercurocromo e iodio, ciliegia e tabacco fermentato, un che di floreale “da bulbo”. La bocca è stilizzata, elegante quindi, ma anche un po’ amara; la nota minerale finisce per dominare nel sapidissimo finale. Netto profumo di rosa canina al riassaggio dopo alcune ore. Ci ha convinto fino a un certo punto: decisivo forse l’averlo assaggiato subito dopo il 1995, rispetto al quale ha meno acidità, meno estratto, e la metà delle risorse aromatiche; non ci è parso in assoluto un rosso geniale, come del resto non lo è alcun vino italiano a noi noto partorito da questo millesimo enigmatico, diseguale, inafferrabile.

Riserva Barrique 1990
Un 1990, in tutto e per tutto; nel colore bellissimo e luminoso; nel profilo olfattivo caratteriale ed evoluto – qui pomodoro concentrato, catrame, nocciole, luppolo, metallo; e nella bocca invece tesa e affilata, rinfrescata da una acidità che come al solito con i ’90 “non si sente arrivare”, nel senso che non la si può prevedere così attiva date le premesse del naso. Il finale lascia in bocca un sapore da macedonia di fragole, nonché una sapidità delicata ma avvertibile. Difficile dire quanto ancora terrà la nota, dal momento che patrimonio olfattivo e dinamica del gusto procedono a velocità diverse.

Riserva Barrique 1989
Granato luminoso, molto bello. Altro naso che regala una ventata marina in apertura, incredibilmente verosimile; il vino, pian piano, svela anche dell’altro: note di tè rosso e ribes acerbo, la “solita” arancia amara e una bordata di erbe da vermouth, per il quale alla cieca qualcuno (noi) potrebbe persino scambiarlo. Inconsueta pienezza al sorso, non tanto per gli estratti quanto per la rilevanza dell’alcol, che scalda e ammorbidisce; la grana tannica e l’acidità puntuale forgiano un insieme equilibrato. I Nebbiolo dell’89 si sono conquistati fama solida, quasi sempre per ragioni opposte: l’autorevolezza tannica e la ficcante acidità degli archetipi di Langa sono qui sostituiti, come valori qualificanti, dalla disponibilità olfattiva e dall’abbraccio alcolico.

Riserva Barrique 1986
Granato intenso e compatto fino all’unghia. Naso deludente, sebbene coeso: farina di castagne, caffè verde e in polvere, pietra; bocca scabra, poco o nulla morbida in ingresso, fresca e salina ma stemperata, con ritorni finali di acqua di fiori; del tannino, nessun indizio. Un Valtellina fragile e ritroso: difficile che bottiglie anche più fortunate di questa passino alla storia.

Riserva Barrique 1985
Riflessi arancio acceso nel manto granato trasparente. Naso – ed è l’unico – ossidativo e al crepuscolo. Forte la nota di vinile (l’estrema unzione del Nebbiolo), indi glutammato e frutta ammaccata come il dattero o la pesca stramatura. Bocca dolciastra e arresa nel tannino, in cui anche l’acidità non punge più; i ritorni di dattero e colla sintetica ne raccontano il percorso evolutivo virtualmente concluso.

Riserva 1983
Granato acceso (avevamo annotato “fiammeggiante”). Grande naso, stratificato e vario: menta e mare, un coté minerale di gesso e cemento, e poi agrumi, pepe bianco, ribes bianco e persino mandarino; dà l’idea di poter proseguire il racconto, concedendogli del tempo. All’assaggio non è per tutti, nel senso che è letteralmente elettrificato dall’acidità: una lama, insomma, tutto in tensione e freschezza; chiude su ricordi agrumati ed erbacei. Del tutto inatteso ma protagonista di una scintillante esibizione; ottima, per giunta, la tenuta a bottiglia aperta.

Riserva 1959
Colore irrealmente luminoso, molto chiaro e con barbagli aranciati. Esordio iodato e salmastro entro i primi 15 minuti dalla stappatura; poi, inesorabilmente, inizia a svolgere un tema aromatico di erbe balsamiche, camomilla, genziana ed altre erbe d’alpeggio, quindi agrume e rabarbaro, una nota fungina come di ovolo, infine una distesa di fiori dal carattere amarognolo e vegetale, come il geranio. Assaggio di piena soddisfazione sotto ogni profilo; soave in avvio, fresco e graduale nella progressione, ruvido di estratti e tannino, irrorato di acidità; chiusura al rabarbaro, di notevole lunghezza e piena rispondenza, ma con garbo e misura d’altri tempi.

 

One Comment to “L’Inferno è una questione di fede”

  1. “Se questo è l’Inferno, peccherò strenuamente per risiedervi.”
    (F.U. Hoff)

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