di Fabio Rizzari
Ogni annata, si sa, ha un suo carattere. O almeno, questo vale per i vini non troppo manipolati in cantina. In terra di Borgogna, alla sua nascita e nei primi mesi di vita, il 1996 venne salutata come una delle vendemmie più straordinarie e promettenti del ventesimo secolo. Sui bianchi, niente da dire: in media sono ottimi, con punte di eccellenza incontestabili. Ma sui rossi? Da quasi quindici anni i vaticini su come e quando i rossi del ’96 si sarebbero finalmente “aperti” vengono regolarmente frustrati dalle prove sul campo.
Diffido della sola abilità circense di riconoscere un vino alla cieca. Per me non si tratta necessariamente del segno distintivo del grande degustatore: esistono palati abilissimi nel “fotografare” l’assetto organolettico di un vino, palati che poi però si ritrovano magari ad emettere valutazioni bizzarre sulla qualità del vino medesimo. Detto questo, penso che un Borgogna rosso del ’96 si possa riconoscere facilmente tra mille in assaggio: il suo marchio peculiare è un’acidità vetrosa, tagliente, metallica, che per il momento non si è quasi per niente smussata e integrata.
Queste riflessioni mi fanno tornare alla mente un vecchio episodio, però bordolese. Nel 1992 feci visita allo Château Ausone, quando ancora era chef de cave il famoso e barbuto Pascal Delbeck. Egli riferì che la sera prima aveva stappato con amici un Ausone del 1896 (mi pare), e preso le relative note di degustazione. Che recitavano: vino crudo, di acidità scissa, tagliente, poco frutto. Ora, disse, la cosa interessante è che nei registri dello Château le note prese dai vecchi cantinieri, nel 1898, riportavano più o meno le stesse impressioni d’assaggio.
A partire dalla fine degli anni 90 noi appassionati le abbiamo provate tutte: stappature anticipate di una, due, tre, quindici, novantasei ore; ossigenazioni forzate, in decanter o anche fioriere apposite; studio delle fasi lunari pre-stappatura; studio delle viscere degli uccelli; passaggi in forno ventilato per fiaccare la resistenza dei vini. Niente. Da anni i rossi del ’96 rimangono come pietrificati, immobili; e forse non solo banalmente per “l’ingessatura” dell’acidità. Quale più, quale meno, ovviamente. Ieri l’ultima riprova, con un inattaccabile e tetragono Volnay Champans d’Angerville. Comincio a sospettare che rimarranno così per l’eternità.
F.R.