di Raffaella Guidi Federzoni
Avrei voluto scrivere un post elegiaco sulla recente assegnazione del Premio Nobel per la Pace alla EU, cioè all’Europa. L’ho fatto in altra sede, ma ci tenevo a considerare la notizia dal punto di vista enoico. Confrontare il Vecchio Mondo vinoso con Il Nuovo ed il Nuovissimo. Non mancherò di farlo nel breve futuro.
È successo però che fra l’ispirazione e la sua realizzazione si è insinuato un diavoletto tentatore, direi proprio una folgorazione. Il luogo del misfatto: un salone affollato con tanti banchi, anzi banchetti, d’assaggio. Dietro ad uno ci sono io e al mio fianco altri amici, colleghi, con i quali ci vediamo una volta all’anno per queste degustazioni itineranti. Poco più avanti sulla destra, sono collocati i VIP della serata. Non che sui loro tavoli ci sia l’insegna First Class , ma le bottiglie lo sono ed il pubblico lo sa, infatti è lì che spinge per assaggiare qualche goccia di vini che raramente si potrebbe permettere.
Ci sono una coppia di vini pluripremiati, quel paio di nomi italiani che tutte le celebrities del mondo dello spettacolo internazionale conoscono e che puntualmente citano quando vogliono fare sfoggio di conoscenza enoica. Sono vini nati da poco, due, tre decenni. Figli di famiglie aristocratiche con blasoni antichi. Cresciuti con cura da baby-sitter fra le migliori su piazza. Fra di loro sono praticamente cugini, frequentano gli stessi club esclusivi e con fair-play elegante gareggiano per il primo posto sul podio dell’eccellenza nella loro categoria, a cui affibbio il nickname di supertuscan, per rimanere nell’anonimato e mantenermi al di sopra delle parti.
Orbene, naturalmente li ho assaggiati, scambiando due parole con chi era lì a mescere. Sulla qualità in sé, niente da dire, uno mi è piaciuto di più e gli riconosco una certa personalità oltre alla classe, la complessità, la lunghezza del suo futuro evolutivo. Veramente un gran bel vino, che anche assaggiato alla cieca riporta ad una certa regione, se non proprio ad un territorio. L’altro mi è piaciuto meno, non per difetti o mancanza di struttura, profumi, eleganza, ma per difficoltà nel collocarlo territorialmente. In questo, un autentico rappresentante del concetto generalizzato di “supertuscan”.
La lingua bifida della mia alterazione però non riguarda la bontà dei vini, bensì una paio di cifre, o numeri, che li accompagnano. Ossia, il loro costo e la quantità di bottiglie prodotte. Ho chiesto informazioni sia ai due mescitori che all’agente responsabile del mercato dove avveniva la degustazione. Mi sono dimenticata di specificare che tale mercato è il Québec, Canada, per il vino italiano un mercato importante, governato da un Monopolio che stabilisce i prezzi in tutti i negozi di sua proprietà, che poi sono gli unici in cui i privati possono acquistare vino.
Poste le domande, ecco le risposte:
− Vino no. 1, da me preferito, produzione circa 140.000 bottiglie, prezzo su scaffale 180 dollari canadesi a bottiglia.
− Vino no. 2, produzione “un terzo di quanto ce ne chiedono” – risposta dell’export manager – prezzo su scaffale 247 dollari canadesi a bottiglia. Dopo qualche indagine parallela, sono riuscita a carpire che la produzione è fra le 30.000 e le 150.000 bottiglie (???).
Prima di passare alle mie alterate considerazioni finali, ci tengo a far notare che i due vini di punta della mia azienda, paragonabili come classe e lustro ai vini sopracitati, molto vicini come qualità intrinseca anche se differenti nell’impatto, si trovano sugli scaffali “quebecoises” l’uno a 58 dollari canadesi – produzione 12.000 bottiglie – e l’altro a 82 dollari canadesi – produzione 15.000 bottiglie. Tanto per dare un’idea del prezzo medio di vini considerati esclusivi.
Perché ho raccontato quanto sopra? In fondo dovrei essere contenta che c’è chi riesce a vendere così bene tante bottiglie. In effetti lo sono, ma il tarlo del dubbio esistenziale lavora e non posso fare a meno di pensare come Woody Allen dopo essere stato scaricato pure da una ninfomane “Devo aver sbagliato qualcosa” (cit. Provaci ancora Sam). Ma a questo punto salterebbe su il solito Humphrey a ricordarmi che “È il marketing, baby!”.