di Fabio Rizzari
Se non siete dei calvinisti del vino, dei custodi della sacra ortodossia della fede enologica, se insomma avete un approccio sanamente laico alle vostre bevute, allora potete provare senza troppi sensi di colpa a “ritoccare” un vino che non vi soddisfa. Come? con la banale tecnica del vinaggio, o se preferite un termine meno enotecnico, del cocktail.
Avete aspettato troppo a stappare un vecchio Brunello, e quando vi siete decisi lo avete trovato un po’ stanco, piuttosto sull’ossidato, insomma sulla china discendente? Miscelatelo con un po’ di Chianti giovane, o di Rosso di Montalcino giovane, o di Morellino di Scansano (giovane, è ovvio).
Vi hanno regalato uno Chardonnay troppo “internazionale”, tutto burro e morbidezza, pieno di note di legno dolciastre, nel complesso molliccio, senza spina dorsale? Dategli un po’ di slancio e di freschezza con un’iniezione di un bianco più teso e minerale, magari un Verdicchio di Matelica o un bianco della Val Venosta.
È un soggetto delicato, potenzialmente fonte di equivoci e fraintendimenti assortiti, mi rendo conto. Ma come sappiamo, è pratica ben conosciuta e diffusa, ben prima che un vino giunga ad essere imbottigliato e immesso sul mercato. Pensate che i vini che bevete nascano da un rispetto assoluto e cristallino dei rispettivi disciplinari di produzione? Quanti produttori si dedicano a queste alchimie, correggendo i loro vini con tagli provenienti da altre annate, altre zone, addirittura altre regioni? E dunque cosa c’è di male nel provare a imitarli, senza conseguenze legali, tra le pareti domestiche?
Non è poi da credere che sia pratica diffusa solo al di qua della barricata, nel mondo della produzione: anche tra i consumatori non manca una tradizione di “abbellimenti” o aggiustamenti casalinghi, secondo il proprio gusto. Per fare solo un esempio, tra alcuni raffinati enofili anglosassoni è invalsa da decenni l’abitudine di correggere uno Champagne a proprio piacimento. Come scrive Serena Sutcliffe, probabilmente la più nota scrittice di vino inglese, “se vi trovate di fronte a uno Champagne davvero vecchio, che ha perso la sua vita, ma che ancora conserva il suo sapore, nessuno vi vieta di aggiungergli una goccia o due di uno Champagne non millesimato, buono e giovane, per ridare vivacità alla ‘vecchia signora’.” * Una goccia o due, per inciso, suona come un eufemismo per non urtare la sensibilità dei puristi.
Divertitevi a sperimentare, e non abbiate timore di sentirvi dei profanatori. Il rispetto per una bottiglia venerabile e questo genere di innocenti variazioni possono convivere senza problemi: basta valutare caso per caso e non offendere gratuitamente un vino che ha già – o ancora – un suo equilibrio e una sua integrità espressiva. Insomma, basta non imitare i mafiosi russi che in un costoso ristorante francese ordinarono uno Château Latour 1928, un Cristal 1990 e un Yquem 1976 (andando a memoria, con il beneficio dell’inventario), li fecero versare tutti insieme in un secchiello per il ghiaccio e… si scolarono la tragica miscela ottenuta da questo crimine efferato.
* “a Celebration of Champagne”, Mitchell Beazley, 1988; ed.it. Idealibri, 1989