di Giovanni Bietti
È stato scritto più volte che prima di essere unita politicamente l’Italia era già stata unita musicalmente attraverso il teatro d’opera. Nulla di più vero: basta leggere il repertorio dei principali teatri attivi nella prima metà dell’Ottocento (la Scala a Milano, la Fenice a Venezia, il San Carlo a Napoli, per menzionare solo i tre più celebri; ma si potrebbero aggiungere i teatri romani come Valle, Argentina o lo scomparso Teatro Apollo, e poi Bologna, Firenze, Genova e molti altri ancora) per rendersi conto di come le opere circolassero attraverso l’intera penisola oltrepassando continuamente i confini tra i vari stati. Il teatro d’opera è insomma un fenomeno culturale tipicamente, peculiarmente italiano; e non è certo un caso che la nascita di un’”opera nazionale” nei vari paesi d’Europa sia sempre avvenuta per opporsi all’ubiquo teatro italiano: Schumann, ad esempio, dichiarava di dedicare una quotidiana preghiera alla nascita dell’opera tedesca, e indirizzava strali velenosi alla “leggerezza” e alle fioriture belcantistiche dei musicisti italiani, contrapposte alla solidità e alla monumentalità tedesca. L’opera italiana, diffusa oltre che per il carattere ammaliante e le belle melodie anche per il fatto che a partire dalla prima metà del Settecento molti compositori italiani erano emigrati per cercare fortuna all’estero, aveva quindi chiaramente uno stile e un’identità nazionale.
Ma l’”unificazione italiana” realizzata dal teatro d’opera in realtà è molto più articolata e profonda. Oltre allo stile musicale, l’opera aveva infatti un preciso stile linguistico, letterario. La conoscenza e la diffusione della lingua italiana passano quindi tanto tramite i libretti operistici di Felice Romani, di Francesco Maria Piave o di Salvatore Cammarano quanto attraverso la poesia e la prosa di Manzoni e Leopardi. Ed essendo il teatro “specchio del mondo”, rivolgendosi nella sua universalità a tutte le classi sociali (la struttura stessa del cosiddetto teatro all’italiana era pensata per permettere ai diversi strati sociali di ascoltare contemporaneamente lo spettacolo: la borghesia in platea, la nobiltà nei palchi e il “popolino” nel loggione), esso poteva naturalmente raggiungere molte più persone, e soprattutto in modo più immediato, grazie alla musica.
Non è certo un caso che i libretti d’opera condividano spesso la stessa metrica piana, ritmicamente uniforme di tanta poesia risorgimentale manzoniana, il senario, l’ottonario, il decasillabo; per rendersene conto basta provare a cantare l’inizio, ad esempio, del manzoniano Marzo 1821 sulla musica di Va’ pensiero sull’ali dorate:
Soffermati sull’arida sponda,
Volti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell’antica virtù…
O, allo stesso modo, intonare Dagli atri muscosi, dai fori cadenti sulle note di Fratelli d’Italia.
Certo, la lingua del Melodramma è una lingua stilizzata, a tratti davvero improbabile, e come tale è stata spesso fatta oggetto di scherno, messa in burletta, utilizzata per satire di vario genere: nei libretti d’opera si dice tempio al posto di chiesa, consorte al posto di marito, accenti al posto di parole; per indicare che un personaggio è al di là dei confini del proprio paese si dice che è in stranio suolo, e così via. Come scrive Luigi Dallapiccola, “che l’opera si esponga al rischio del ridicolo è cosa che sappiamo da tempo. Ma sappiamo anche (e da tempo assai più lungo) che in certi casi, nell’arte come nella vita, è appunto questo estremo rischio a costituire la prova del fuoco per la sublimità dello stile”. È quello che succede nelle opere di Rossini, di Bellini, di Verdi. Non si spiegherebbe altrimenti la diffusione, il senso di appartenenza, l’identificazione che gli italiani della prima metà dell’Ottocento provavano nei confronti del Melodramma.
I grandi compositori d’opera diventano, in forza del loro stile e della qualità universale dei sentimenti che esprimono attraverso la musica, dei simboli di lotta all’oppressione straniera. Gli aneddoti che intrecciano le tematiche e gli eventi risorgimentali all’opera sono innumerevoli: dai fratelli Bandiera che seguono il plotone che dovrà giustiziarli cantando un’aria della Donna Caritea di Mercadante a Garibaldi che, alla vigilia della partenza da Quarto, accende gli animi dei Mille intonando arie d’opera.
La figura centrale di questo stretto rapporto è naturalmente quella di Giuseppe Verdi, sentito come “compositore nazionale” e risorgimentale per eccellenza, al punto che il suo nome veniva usato come acronimo per inneggiare segretamente a Vittorio Emanuele (“Viva Verdi”, ossia “Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia”). Verdi che da Parigi, non appena seppe delle Cinque Giornate di Milano, si affrettò a ritornare in Italia, dichiarando che “l’ora era suonata” e che la sua aspirazione era di vedere “l’Italia libera, una, repubblicana”. Verdi che, spinto da Mazzini, mise in musica nello stesso 1848 l’inno di Mameli Suona la tromba, augurandosi di farne “la Marsigliese degl’italiani”. Verdi, infine, che scrisse quella che per tematiche, tono del libretto, occasione di rappresentazione è probabilmente l’unica vera opera risorgimentale, La Battaglia di Legnano. Rappresentata per la prima volta nel gennaio 1849 nella Roma repubblicana che aveva temporaneamente cacciato il Papa, quest’opera fondò, più di altri capolavori, la definitiva fama di Verdi: ad ogni rappresentazione l’entusiasmo era tale che si ripeteva per intero l’ultimo atto. Dopo il fallimento degli ideali repubblicani nel 1849, Verdi scriverà una sola opera che in qualche modo si richiama a tematiche risorgimentali: I Vespri Siciliani. E la rappresenterà nel 1855 a Parigi, lontano dal clima di restaurazione che attraversava l’intera Italia.
Le autorità si erano accorte perfettamente di quanto il Melodramma fosse in grado di accendere l’animo degli italiani; e non a caso, negli anni 50 dell’Ottocento la censura si fa più severa che mai. Perfino un poeta come Giuseppe Gioachino Belli, che pure nei suoi Sonetti si mostra – segretamente – più che consapevole delle condizioni del popolo romano, scrive nel 1852 un severo Giudizio di Censura sul Rigoletto, sostenendo che dal “putrido dramma di Vittore Hugo… non potea generarsi che una fetida contraffattura quale è questa”, e suggerendo di eliminare dal testo, ogni volta che si presenta (cosa che nel Rigoletto succede molto spesso, come ogni appassionato sa bene), “quel brutto vocabolo di vendetta, che suona malissimo e specialmente oggidì e in bocca ai popolani”.
Nove anni più tardi, l’Italia avrebbe saldato il debito di riconoscenza verso il suo maggior compositore, e il ruolo che la sua musica aveva svolto nel destare le coscienze degli italiani: il 6 febbraio 1861 Verdi venne infatti eletto nel primo Parlamento Italiano, su insistenza dello stesso Cavour. Il cerchio si chiudeva, il significato attivo della musica nella vita politica e sociale italiana veniva ufficialmente sancito. Vorremmo tutti che questo significato continuasse a vivere ancora oggi, dopo centocinquant’anni.