di Alessandro Masnaghetti
Il mondo del vino è una cosa davvero strana, e più il tempo passa e più la situazione peggiora. Un mondo prigioniero di mode, improvvisazione (che diventa disinformazione) e di giornalistiche corse al primato (primi a scoprire un azienda, primi a rivalutare una zona, primi a usare un determinato aggettivo, primi a rinnegarlo e primi a cambiare visione del mondo senza ammettere di averla cambiata).
Prendiamo la degustazione, dal linguaggio al modo di classificare i vini. In principio era il legno, poi vennero la struttura, la struttura e il legno, la dolcezza e d’improvviso la mineralità. Mineralità usata e abusata e altrettanto d’improvviso abbandonata, perché adesso è il momento del territorio.
Di quel territorio che si sente senza mai averci messo piede, di quel territorio che si sente avendo assaggiato sì e no un paio di vini (magari scelti “sapendo” già a priori che sono “rappresentativi”). O peggio ancora di quel territorio che fino a un paio di vendemmie fa quasi non esisteva e che oggi si riconosce al primo sorso.
Di quel territorio, somma dei precedenti (lo so adesso esagero, ma è per rendere l’idea), che più il vino è acquoso nel colore, acido nella struttura e cervellotico nella beva (senza negarsi, chissà, anche un difettuccio) e più è grande (e se poi è soltanto lo stile del produttore, va bene lo stesso).
Il bello, quello vero, viene fuori quando un territorio inizi a girarlo e a conoscerlo davvero. Perché è allora che saltano fuori alcune liason quanto meno azzardate: grandi “sangiovese di territorio” che nascono da vigne “in buca”, a 500 metri e con esposizione a nord, o grandi Barolo e grandi Barbaresco che nascono da vigne che nessuno vorrebbe o, bene che vada, dalle zone meno vocate di una grande cru.
In altre parole, prima il sovvertimento delle più elementari regole della degustazione (il difetto non è più difetto) e ora il sovvertimento delle più elementari regole della viticoltura. Perché ormai ciò che pensiamo è ciò che vogliamo ed è ciò che dobbiamo ottenere. Il dato di fatto è obsoleto e ciò che conta è la nostra visione del mondo, a cui tutto deve adattarsi pena la bocciatura.
In altre parole, né più né meno di quanto in tanto vituperati “winemaker” facevano ai tempi del loro massimo splendore (e che ancora oggi spesso continuano a fare): produrre un vino, con determinate caratteristiche, indipendentemente dalle uve di cui dispongono e dalle leggi che regolano ogni territorio, dal più umile al più blasonato.
Solo che se continuiamo su questa strada faremo un cattivo servizio non solo al vino inteso come bevanda, ma a tutto ciò che gli orbita attorno, primo fra tutti chi ha la pazienza e il piacere di leggerci.