di Raffaella Guidi Federzoni
1983 – Due vite, una svolta
Quell’anno in settembre faceva ancora molto caldo. Non il caldo afoso del luglio precedente o quello inframmezzato da acquazzoni capitato in agosto. Era il caldo saporito e rotondo di fine estate, quando i fichi e l’uva si riempiono della stessa dolcezza regalata dalla luce serale. Tutto preannunciava una vendemmia con i fiocchi.
Io ne ero inconsapevole, lontana da quel mondo che presto mi avrebbe assorbito. Talmente ignara che non ci pensai mezzo secondo a dire “Sì”. Sì, vengo con voi su questo Van scassato a vedere il podere che avete comprato – datemi solo il tempo di chiudere la casa al mare e avvisare i genitori rimasti a Roma con misurata vaghezza -. Sì, il nome Montalcino mi dice qualcosa – i miei stanno facendo il corso AIS – so che il vino è buono. Nessun problema per la scomodità, ho ancora dieci giorni prima di tornare al lavoro.
Dopo un viaggio che mi sembrò interminabile, passammo la sbarra che segnò il punto di non ritorno. Mentre i vignaioli scrutavano i grappoli e preparavano le cantine, sotto un cielo terso, privo di nuvole, camminando per lo più su strade sterrate, cominciai a conoscere il futuro. La costruzione era una rovina e due giovani incoscienti l’avevano comprato per una manciata di soldi. Il mio biondo poeta contadino e suo fratello erano disposti a tutto pur di stare lì. Senza elettricità, bagno, gas, e solo con l’acqua della cisterna. Un sogno impossibile. Soprattutto per la mancanza d’acqua.
Ma nel podere più vicino, circa a tre chilometri più in basso, abitava allora un pastore sardo che spesso portava le pecore a pascolare proprio sotto la casa. Su di lui potrei scrivere un intero romanzo. Qui mi limito alla sua intuizione nel trovare una sorgente all’interno della minuscola proprietà, salvando così quel progetto di vita alternativa. Qualche anno dopo la fattoria del pastore fu rilevata da qualcuno che poi la vendette a qualcun altro e adesso chi la possiede ha piantato le vigne e ci fa il vino. In piano, accanto alla ferrovia. Io avrei preferito lasciarci le pecore.
In verità, qualche vigna c’era anche in quella zona boscosa e quasi ai limiti della denominazione, ma allora chi lì vinificava le uve si limitava a produrre un vino onesto e schietto da vendere sfuso e da bersi presto. Il Brunello e il Rosso di Montalcino venivano prodotti in zone più alte, lontane dall’umidità che saliva dal fiume. Le prime bottiglie assaggiate mi sono rimaste dentro, il 1978, 1979. Vini lunghi, persistenti, dal colore brillante, sorprendenti nella loro completezza. Bottiglie che costavano poco, ma difficili da reperire, a parte qualche nome famoso.
Tornando alla Vendemmia 1983, le previsioni di un’annata calda, ma non cocente, furono confermate. La raccolta andò avanti sino a fine ottobre, le notti fresche aiutarono una maturazione con il passo giusto. Noi facevamo ancora il bagno nel fiume e poco lontano il mosto bolliva.
Arrivato il momento della svinatura salutai il mio amore nella minuscola stazione impresenziata, dove bisognava fermare il treno tendendo il braccio come per l’autobus. La stessa stazione di Pian delle Vigne, ora di proprietà di un grande nome toscano. Dopo tanti fine-settimana passati insieme in mezzo al niente, vissuti con niente, il mio poeta con le mani rovinate dalla calcina ritornava al Nord, per mettere insieme altri soldi. Io tornai al mio lavoro e alla mia vita romana.
Non mi capita spesso di stappare una bottiglia di Brunello 1983, quando succede è quasi sempre una conferma. Il vino si è evoluto al punto da acquietare l’esuberanza iniziale del frutto, riponendola sotto una coltre autunnale di humus e pelliccia. Il nerbo però è rimasto e si è rinforzato. La bocca viene riempita e soddisfatta. Il calore che si sprigiona con una bella persistenza, l’integrità e l’equilibrio sono comparabili allo sguardo fra una coppia che sta insieme da tanti anni e si vuole ancora molto bene.
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