di Giancarlo Marino
Non ricordo se era il 1980 o il 1981.
In famiglia mio padre era l’unico a bere vino, un bicchiere a pasto di bianco dei castelli romani, che il medico gli aveva prescritto e che lui acquistava nelle famose fraschette che si susseguivano senza soluzione di continuità lungo la strada che, attraversando Frascati e Monteporzio, si inerpicava fino a Montecompatri, dove avevamo casa. Ogni tanto provava a farmene bere, ma dopo diversi tentativi aveva rinunciato. Io preferivo la birra.
Ero astemio, di fatto, non per caso ma per scelta. In quello stesso periodo, andavo spesso in Garfagnana insieme ad un gruppetto di amici amanti della buona tavola e, quindi, del buon vino. L’Osteria “La Ruota” a Fornoli, vicino a Bagni di Lucca e al Ponte del Diavolo, era il luogo dove erano soliti andare ai primi di novembre per godere della cacciagione, del tartufo bianco, della splendida cantina, insospettabile per quel luogo, che il proprietario curava con grande amore e competenza.
Di solito non mi univo a loro perché non riuscivo ad apprezzare allo stesso modo il mangiare e il bere. Li sentivo raccontare di meravigliose bottiglie di vino toscano e non capivo come ci si potesse invaghire di quel liquido, che a me ricordava solo il bianco delle fraschette e gli inevitabili cerchi alla testa a corollario.
Quella volta mi lasciai convincere, più per la compagnia che per il tema della serata (tordi e tartufo bianco), non sapendo che qualcosa sarebbe cambiato in me.
Ricordo benissimo che della mia prima, vera bottiglia di Vino mi colpì innanzitutto l’etichetta, che sapeva di nobile, riservato e austero. Sapendo del nostro arrivo, l’Oste aveva stappato la bottiglia alcune ore prima. Un’esagerazione, pensai. Il primo sorso mi lasciò perplesso, era come aprire con le mani un’ostrica, ma mi incuriosì. Con il passare del tempo (la cena si protrasse per almeno cinque ore), mi ritrovai però a rigirare il vino nel bicchiere con sempre maggiore voglia di ficcarci dentro il naso e di assaggiarne un altro sorso. Ipnotico. Goderne i profumi e il gusto, in un crescendo calmo ma costante, richiamava inesorabilmente le colline toscane, la calma dei dolci pendii, il riserbo dei cipressi, il silenzio claustrale rotto solo dal soffio del vento.
Qualcosa cambiò, davvero, e per sempre.
Io non ho mai conosciuto di persona Franco Biondi Santi, giusto poche parole a conclusione di una straordinaria verticale del suo Brunello di Montalcino, a Roma una decina di anni fa. Ma ne ho talmente letto e così tanto ne ho sentito parlare dagli amici che lo avevano frequentato, che è come se lo avessi conosciuto davvero. Per lui, del resto, hanno sempre parlato i suoi vini, inutili troppe parole quando con i fatti si dimostra quello che si pensa nel profondo del proprio cuore, e non si corre il rischio che si possa equivocare.
Non io, altri potranno parlare di lui, ricordando quello che ha rappresentato per Montalcino, per la Toscana, per il vino. Io voglio solo ricordare che la mia passione per il Vino è nata con lui, per lui, con quella bottiglia di Brunello di Montalcino 1975 che un piccolo Oste di Fornoli, amante del buon Vino, più di trenta anni fa, scelse e stappo per noi.